450 puntate: Grey’s anatomy ha appena raggiunto (proprio questa settimana) una cifra mostruosa, per una serie televisiva del ventunesimo secolo. Certo, siamo lontani dalle quindicimila di General Hospital, e anche dalle quasi settemila dell’italiana Un posto al sole. Ma quelle sono soap opera, roba diversa.
La sopravvivenza di Grey’s Anatomy all’interno del panorama televisivo americano – e dell’immaginario del pubblico globale – ha dell’incredibile, in un contesto in cui la produzione e il lancio di novità seriali è normalità quotidiana, a causa della proliferazione delle piattaforme streaming. E come sempre in questi casi, risulta difficile trovare una spiegazione chiara per una tale persistenza.
Quindi, più che sulle cause, meglio concentrarsi sulle conseguenze. Dunque.
Grey’s Anatomy - In onda su La2 dal 22 ottobre
RSI Cultura 18.10.2025, 12:19
Grey’s Anatomy ha creato star assolute nel panorama mediatico statunitense, a partire ovviamente da Patrick Dempsey (che lasciando la serie all’undicesima stagione ha offerto agli sceneggiatori la rara possibilità di mettere in scena la morte di uno dei protagonisti) e Ellen Pompeo (che grazie alla sua costanza è oggi uno dei volti più pagati della televisione mondiale: quasi seicentomila dollari a episodio).
Grey’s Anatomy ha lanciato la carriera di quella che oggi è diventata una delle tre donne più potenti di Hollywood: Shonda Rhimes, che ai tempi del primo episodio era una giovane sceneggiatrice nera, senza santi nel paradiso degli studios, che con coraggio (e anche la giusta dose di sfacciataggine) aveva proposto una protagonista femminile tanto stereotipata quanto realistica, ottenendo – tra non pochi dubbi – un debutto a fine inverno, stagione tradizionalmente riservata ai prodotti considerati poco promettenti. Invece, in capo a tre stagioni, Grey’s Anatomy era diventato il pezzo di tv più chiacchierato d’America, nonché pietra angolare per fondare la casa di produzione indipendente Shondaland, che avrebbe lanciato successi mostruosi come Scandal, Le regole del delitto perfetto, Inventing Anna e Bridgerton.
Grey’s Anatomy ha stabilito la regola del cosiddetto blindcasting che la Rhimes avrebbe poi applicato a tutte le serie successive: omettere i cognomi e non inserire descrizioni fisiche dei personaggi nella sceneggiatura, in modo da poter scegliere gli attori in base alle loro capacità e alla loro attitudine al personaggio, senza essere influenzati dall’etnia («Ero stanca delle agenzie che mi proponevano solo attori biondi e con gli occhi azzurri»). Oggi, le produzioni Shondaland applicano questo principio fino all’estremo: la presenza di nobili neri nella corte inglese ottocentesca di Bridgerton sarà pure poco credibile, tuttavia è una scelta che funziona perfettamente come parte di un meccanismo che privilegia l’efficacia pop e (soprattutto) la diversità rispetto al rigore storico. E che prevede, tanto per fare un esempio, anche quartetti d’archi che suonano improbabili cover classiche di Billie Eilish durante le feste danzanti.
Grey’s Anatomy ha, tra le altre cose, reso più popolare la professione sanitaria tra i giovani americani; aiutato i pazienti ad essere più empatici nei confronti dei medici curanti, nonché a percepirli come figure positive e coraggiose; e, tanto per mettere a catalogo un fatto ancora più concreto, prodotto un picco di contatti per un servizio di assistenza a vittime di violenza sessuale, citato nell’episodio In silenzio tutti questi anni andato in onda nel 2019.
Più di tutto, però, Grey’s Anatomy ha attraversato l’ultima era televisiva, dimostrando che la chiave per la sopravvivenza a lungo termine non è essere prestige tv, ma diventare comfort tv. Quindi sì, certo, le grandi produzioni, raffinate e costose, portano a casa premi e plauso della critica, ma costituiscono picchi di breve durata. Meglio puntare su prodotti che si prendono meno sul serio, e che proprio per il minor impegno richiesto allo spettatore diventano un rifugio sicuro.
Ci sono in giro serie meravigliose, scritte da grandi sceneggiatori, girate da grandi registi. Perfino prodotte da Spielberg, santo cielo! Eppure, noialtri spettatori finiamo a guardare Suits o NCIS (che ancora solo un paio d’anni fa metteva insieme 40 miliardi di minuti streammati) o Friends (25 miliardi di minuti). O, appunto, Grey’s Anatomy. Una serie, per carità, dignitosissima e divertente, ma certo non particolarmente profonda, e piena di momenti che sfiorano il ridicolo: ricordate la puntata in cui precipitava l’aereo con a bordo tutti i medici protagonisti della serie? Ecco.
Pare proprio che, nell’epoca della scelta infinita, capace di seppellire per sempre l’idea che ci si possa accontentare di “quello che passa in televisione”, sempre più spesso ci accontentiamo (appunto) di un divertimento senza pretese, che serve solo a rilassarsi, a spegnere il cervello. È un fatto, ad esempio, che il motivo principale per cui si mantiene l’abbonamento a questa o quella piattaforma di streaming non è vedere l’ultima novità, ma più probabilmente rivedere 500 episodi di una qualche sitcom amatissima. Uno alla volta, quando capita, senza dargli importanza. Non è un caso, se a un certo punto nel 2019 Netflix ha pagato 100 milioni di dollari per un anno di diritti streaming di Friends. Insomma, non sappiamo se, come si dice in giro, l’epoca d’oro delle serie sia finita. Ma possiamo dare per assodato che l’epoca d’oro delle serie comfort non finirà mai.