Cinema

Tron: Ares e la fine di tutte le metafore

Il nuovo film con protagonista Jared Leto (e il ritorno di Jeff Bridges) riesce a unire supereroico e fantascientifico. Senza prendersi troppo sul serio, per fortuna

  • Ieri, 14:00
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  • IMAGO / Landmark Media
Di: Michele R. Serra 

Il futuro, quando arriva, arriva. E può essere un problema per la fantascienza, che di visioni del futuro vive. Oggi, tutto il futuro che avevamo immaginato nel secolo precedente è arrivato. Ma quello che potremmo immaginare oggi appare tremendamente nebuloso. Che è il problema fondamentale anche dell’ultimo Tron: Ares, e inevitabilmente lo rende un prodotto dimenticabile. Il che non significa, però, che non si possa goderne – almeno per due ore seduti davanti allo schermo.

Non sorprende che Tron: Ares non appaia destinato a diventare un cult generazionale come è successo all’originale del 1982. E tuttavia, risulta efficace come fondamenta per una futura saga cinematografica. O meglio, franchise, per usare una parola che renda meglio conto degli obiettivi economici della Disney, che spera in questo modo di normalizzare l’eccezionalità di Tron, che certo finora non rientra nei classici percorsi produttivi hollywoodiani.

Del resto, si è mai visto un franchise disneyano composto di soli tre film nell’arco di 43 anni? Si è mai visto un franchise disneyano fondato su un film di scarso successo? Eppure, eccoci qui. Il primo Tron non aveva certo (eufemismo) fatto sfracelli al botteghino, e solo in seguito è riuscito a dare origine a un piccolo culto: è successo quando internet è diventato una realtà, i ragazzi degli anni Settanta sono diventati trentenni, e la loro nostalgia è diventata spendibile dal punto di vista commerciale. Ma è successo anche perché il Tron originale era effettivamente un quarto d’ora avanti rispetto all’estetica del cinema dei suoi tempi, e non solo: senza Tron, diciamo oggi, niente Matrix e niente Ready Player One, tanto per citare i primi due che vengono in mente.

Il nuovo Tron: Ares non è un cosiddetto legacy sequel, anche perché quello è rappresentato dal film precedente, letteralmente intitolato Tron: Legacy. Lì si trattava di una pellicola narrativamente poco stabile, beatificata da una colonna sonora onnipresente opera dei Daft Punk. Il risultato finale era simile a un videoclip. Qui si tratta di una pellicola narrativamente poco stabile, beatificata da una colonna sonora un po’ meno onnipresente opera dei Nine Inch Nails. E il risultato finale, per fortuna, è simile a un vero nuovo tentpole hollywoodiano, che potrebbe riuscire a mettere insieme i due generi più amati dai produttori: fantascienza e supereroi.

Tron: Ares, nella pratica, è una vera origin story, che racconta la nascita di un superuomo, uscito tecnomagicamente dal mondo digitale, e di un supercattivo, entrambi tutto sommato convincenti e piuttosto cool, anche a dispetto del fatto che uno dei due sia interpretato da Jared Leto. Si muove, insomma, simmetricamente rispetto all’originale di quarant’anni fa: lì Jeff Bridges veniva risucchiato dentro il computer, qui Leto viene sputato nel mondo reale. La forza simbolica di questa idea appare ormai scarsa, perché, appunto, il futuro è arrivato: vivere nel mondo digitale è una realtà che abbiamo accettato, persino abbracciato, e l’idea di una intelligenza artificiale capace di pensiero indipendente è già pienamente entrata nella nostra vita quotidiana – e già ci stiamo dimenticando che quello che il marketing della tecnologia ci vende come “pensiero” non è altro che imitazione e simulazione.

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Jeff Bridges in Tron: Ares, 2025

  • IMAGO / Landmark Media

Quindi, a dirla tutta, forse la metafora non è così consunta: il superuomo digital-militare interpretato da Jared Leto – nato come IA e poi sfuggito al controllo del suo creatore – impone la sua presenza nel mondo reale a suon di mazzate, proprio come i giganti del mondo tecnologico impongono muscolarmente i loro prodotti ai consumatori. Infatti, quello che risulta meno efficace è il tentativo di convincerci che quel personaggio sia un eroe positivo.

Funziona molto, invece, il modo in cui Tron: Ares abbraccia la sua stessa, genetica ridicolaggine, con tecnologie improbabili quasi quanto i dialoghi sul senso della vita tra Leto e un (quasi) redivivo Jeff Bridges, in un momento di puro vintage anni Ottanta che avrebbe potuto raggiungere il sublime se solo fosse stato gestito con maggiore abilità. Quindi, il viaggio nel mondo della Rete – qui sempre all’inglese, «Il Grid» – tutto sommato vale il prezzo del biglietto. L’importante è non pensare troppo alle metafore, ché si potrebbe uscire dal cinema un po’ depressi.

Legato a Indovina chi viene al cinema, 11/10/25

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