La serie più vista nella storia di Netflix, quella che ha infranto ogni record, è Squid Game (Il Gioco del Calamaro). Con una narrazione tesa e carica di colpi di scena, racconta di un gruppo di persone disperate, disposte a rischiare la vita pur di uscire dai debiti, partecipando a una serie di giochi mortali ideati per il piacere di un pubblico misterioso e facoltoso che osserva da remoto. Ma non tutti sanno che la serie era stata inizialmente concepita come film per i grandi schermi. L’industria non ci ha creduto, e così il progetto è approdato su Netflix, che è riuscito a creare il fenomeno globale che conosciamo.
I primi a sorprendersi del suo successo sono stati proprio i coreani, in patria il genere era già stato sperimentato, ma mai con questa capacità di oltrepassare i confini. E’ successo durante la pandemia, che ha spinto gli spettatori a rimanere in casa, ha moltiplicato le visualizzazioni, facendo esplodere l’ascesa delle piattaforme streaming, a discapito del cinema tradizionale. E tra le industrie più colpite, c’è proprio quella coreana.
«Netflix è diventata molto potente. Produce contenuti in Corea, ma si concentra su un pubblico internazionale. Ha avuto molto successo e così attira talenti, non solo attori, ma registi, direttori della fotografia, operatori di riprese, creando uno squilibrio tra produzioni cinematografiche e piattaforme streaming». A spiegarlo è Darcy Paquet, esperto di cinema coreano e consulente del Far East Film Festival di Udine, il più importante festival del cinema asiatico in Europa. Con la missione di far conoscere il cinema popolare, ogni anno dal 24 aprile al 2 maggio propone un’ampia selezione di film da tutta l’Asia.
Love in the Big City, film coreano in concorso al festival, racconta la storia di un’amicizia profonda tra due giovani considerati outsiders: lui omosessuale, lei indipendente e anticonformista. Vivono ai margini della società, pur continuando a cercare una maniera di integrarsi. Sullo sfondo, una Seoul vibrante, dove la libertà individuale convive con rigidi codici sociali. «Prima della pandemia si puntava sui blockbuster», spiega ancora Darcy Paquet, «adesso sono più rari, il pubblico sta valorizzando film a medio budget, come Love in the Big City, basato su un romanzo, non è stato enorme successo di botteghino, ma ha guadagnato abbastanza ed è riuscito a rimanere sui grandi schermi per diverso tempo, facendo sì che la gente ne parlasse».
Se il cinema fatica ovunque a reggere il confronto con le piattaforme streaming, in Cina la situazione è diversa: così come per i social media, le grandi piattaforme globali (Netflix, HBO, Disney+, ecc.) non hanno accesso. Esistono però i corrispettivi locali, come iQiyi, Bilibili, Tencent Video, che si sono sviluppati puntando al mercato interno, inizialmente offrendo spazio a film d’autore esclusi dai circuiti commerciali. In assenza di rigide restrizioni e quote che invece colpiscono le sale cinematografiche, le piattaforme sono cresciute rapidamente, un privilegio che è andato scemando man mano che loro influenza è aumentata. Le piattaforme hanno risposto facendo scelte più commerciali, introducendo produzioni originali, in questa maniera hanno cominciato a offrire prodotti sempre più simili a quelli del cinema, competendo per lo stesso pubblico. Poi è arrivata la pandemia e gli imprevedibili lockdown.
«Per i filmmakers è diventato difficile aspettare una possibile uscita sui grandi schermi, optando così per le piattaforme streaming», spiega Maria Ruggieri, consulente per il Festival per i film cinesi. Spiega che per difendere l’industria la Cina ha imposto ai filmmakers di decidere a priori se il film debba uscire nelle sale o in streaming. «Se i film vengono prodotti con lo scopo di essere distribuiti nelle sale i produttori non possono cederlo a piattaforme online. Devono dare priorità alle sale. Possono venderlo solo dopo, non prima. Questo è stato importantissimo perché è una protezione dell’industria cinematografica, proteggi le sale, le persone che ci lavorano, il box office, il produttore non puoi fare una scelta indipendente dal benessere dell’industria».

Legends of the Condor Heroes
Nonostante la ripresa post-Covid, più rapida rispetto ad altri paesi asiatici, Corea inclusa, anche in Cina si cercano oggi storie nuove, capaci di coinvolgere un pubblico meno incline alle sale. Molto interessante notare come nell’ultimo anno si è registrato un boom di film al femminile, diretti da donne. E le donne superano numericamente gli uomini tra il pubblico che sceglie il grande schermo. A trainare il fenomeno lo scorso anno è stato Yolo: you only live once. La protagonista, Le Ying, ha 32 anni vive in casa con i genitori, non lavora, è depressa, passa la giornata tra dormire e mangiare. Una litigata in famiglia e l’incontro con un allenatore di box, però, segnano una rottura attraverso cui Le Ying riesce a trovare la strada per reiventarsi. Un anti-eroe che ha conquistato il cuore degli spettatori, diventando il film più visto del 2024 in Cina, con un incasso di 472 milioni di dollari.
Sulla stessa scia, Her Story e Like a Rolling Stone, anch’essi incentrati su figure femminili in cerca di riscatto personale. Entrambi raccontano storie di emancipazione in un contesto urbano moderno, ma ancora intriso di patriarcato. Storie capaci di generare dibattito senza uscire dai limiti della censura, in un paese dove il femminismo ha una storia tormentata, con un passato di attivismo mal visto e soppresso dalle autorità. L’audience del Far East Film Festival, che vota, gli ha conferito rispettivamente il primo e il terzo premio.
Il tema della censura è quanto mai presente a Hong Kong, fino a pochi anni fa un’isola per la libera espressione in Asia, e ormai sotto la stretta di Pechino. The Last Dance, un dramma familiare ambientato nel mondo delle imprese funebri, è diventato il film di maggior successo commerciale nella storia della città. A Udine si è aggiudicato il secondo premio. Dietro la trama, però, il pubblico ha saputo leggere un sottotesto più profondo: critiche alla condizione sociale e politica della città, celate in frasi come “Ci sono molte anime tormentate” e “Vivere può essere un inferno”.
Nonostante questi successi, il cinema a Hong Kong è in crisi: nove sale hanno chiuso nel 2024 e tre nei primi mesi del 2025. Oggi ce ne sono la metà rispetto a trent’anni fa. Influisce anche l’alto costo dei biglietti e degli affitti, spingendo molti spettatori ad aspettare l’uscita in streaming. Si sperimentano soluzioni alternative: proiezioni di film restaurati per attrarre il pubblico più maturo, normalmente non interessato, e che ha risposto molto bene all’iniziativa. Sempre sul grande schermo si è introdotta la possibilità di vedere concerti live o eventi sportivi.

The Last Dance
Non è un caso isolato, in Giappone lo si fa da oltre 10 anni, e proprio qui si è introdotta una nuova maniera di usare il grande schermo, con Hypnosism – Division Rap Battle. Si tratta di una produzione animata che presenta sfide a colpi di canzoni hip hop, mentre il pubblico vota in tempo reale con un’app, influenzando l’esito della narrazione.
«Grossi cambiamenti stanno trasformando l’industria, persino nella definizione di “film” o “sala cinematografica”», scrive Mark Schilling nel suo saggio Nuovi approcci: il cinema giapponese nel 2024, pubblicato nel catalogo del Far East Film Festival 2025, di cui è consulente. Il Giappone è tradizionalmente orientato al mercato interno, privilegiando film di animazione basati su manga popolari e film d’azione di samurai. Oggi però guarda a co-produzioni internazionali, anche grazie alla spinta delle piattaforme online. «Non molto tempo fa, continua Mark Schilling nel suo saggio, un registra di fama internazionale come Kore-eda non avrebbe mai pensato di piegarsi a realizzare una serie televisiva, e allo stesso modo una start up come Roadstead difficilmente sarebbe riuscita a convincere un maestro dell’horror come Kurosawa a realizzare il primissimo film presentato dalla piattaforma».
Chi riesce a produrre opere capaci di trascendere i confini nazionali diventa un esempio per i paesi che ancora faticano a imporsi. E’ il caso del Vietnam, che ha lungo a guardato alla più avanzata industria Corea, producendo remake locali di successi coreani. «Oggi, però, non si cerca l’ennesimo remake, si cerca piuttosto il Parasite vietnamita», dice Nguyen Le, consulente del Festival dal Vietnam. Parasite, film di produzione coreana con un budget di 11,4 milioni di dollari del 2019, è diventato un fenomeno globale: 258 milioni di dollari al box office, la Palma D’oro a Cannes, 4 premi Oscar, incluso quello come miglior film. «La storia è molto locale, è profondamente coreana, ma le immagini, il dramma, la narrativa è stato fatto in una maniera che possa essere capita da un’audience americana, al pari di un’audience vietnamita».
E’ quello che Nguyen Le si augura per il futuro della cinematografia vietnamita, quest’anno presente al Festival con Betting with Ghosts, tra i dieci film più visti l’anno scorso. Si tratta di dramma familiare, che comincia con le disavventure del protagonista, un ragazzo che si indebita puntando sulle gare di combattimento di galli, e la cui vita si intreccia a quella di un fantasma che può vedere solo lui. E’ un’opera che parte come commedia dallo stile teatrale, mista a inseguimenti degni dei film d’azione. Man mano il film assume toni sempre più drammatici, rivelando la profondità dei legami familiari dei protagonisti e ai sacrifici che porta. E’ un film colmo di elementi narrativi e stilistici, che apre una finestra sul Vietnam visto attraverso la lente di un intrattenimento locale, ma che deve ancora trovare la formula per riuscire a conquistare un’audience oltre i confini.
Il cinema delle periferie – Il cinema asiatico
Charlot 14.04.2024, 14:40
Contenuto audio