“Monster” è stato ribattezzato L’innocenza in italiano ed è un esempio di grande cinema giapponese contemporaneo. Gianmaria Tammaro ha giustamente rintracciato nella poetica di Kore-eda echi di Ozu e del suo realismo, ma anche de La strada di Fellini. Questo film è tuttavia molto di più, come lo stesso esperto di cinema ricorda.
Il film inizia con un palazzo in fiamme, una mamma e un bambino che lo guardano a distanza.
È quello di lei il punto di vista che si insegue per la prima parte della storia. Ne seguiranno altri due.
Nel palazzo - si dice - ci sarebbe stato un insegnante, il maestro Hori (“un insegnante in un bar per adulti”, “magari si sente solo”): ecco il primo pregiudizio negativo che ci viene instillato nei confronti del maestro.
Tutta la prima parte del film è lento disvelamento, e ci sembra di avere gli strumenti giusti per capirlo, ma non li abbiamo. Il regista, Hirokazu Kore-eda, li dissemina nell’ordine in cui desidera.
Sembra inoltre giocare coi generi, tant’è che per un momento tutto è possibile: nel frangente in cui il piccolo fa una serie di cose bizzarre e pericolose pare che il film possa diventare un horror, tanto oscura sembra (sembra) la psiche del bambino e i meandri da Bianconiglio in cui, ancora, sembra volerci portare la storia. Poi, diventa una sorta di giallo. O comunque una storia che parla d’infanzia, con molti elementi mystery. Chi ha appiccato l’incendio? Come mai il bambino si comporta così? È vero che la preside ha investito sua nipote e ha dato la colpa al marito? Chi ha ucciso il gatto? (Ma poi, è proprio vero che qualcuno ha ucciso il gatto?). Soprattutto: il maestro Hori picchia gli alunni?
Quella che sembra una storia su un malinterpretato e abusante eccesso di ius corrigendi da parte delle istituzioni scolastiche, si rivela essere tutt’altro.
La vera domanda strisciante è: chi è il mostro? E la risposta è: tutti e nessuno. Ognuna delle tre parti in cui è diviso il film è affidata a un punto di vista diverso. Il primo è tutto della giovane madre; il secondo è del maestro, quello che fino a quel momento era il mostro; il terzo è dei bambini. Ed è qui che finalmente capiamo tutto. Non è un’oscura storia di abusi, dunque, ma la storia di un’amicizia tra piccoli che scoprono anche il loro orientamento sessuale (più che sessuale, visto che sesso non ce n’è data la tenera età, sentimentale). Il tutto è trattato con una delicatezza e tuttavia con un realismo che sono gemme.
La bravura grande di Hirokazu Kore-eda sta nell’empatia verso i suoi personaggi, nella presa in giro rispettosissima nei confronti dello spettatore, a cui sembra dire: fermati. Prima di giudicare, prima di pensare di sapere tutto, ascolta qui. Non cade mai nel relativismo più assoluto, ma ci ricorda che non sappiamo tutto. Non lo fa con moralismo, lascia che sia la trama a svolgersi pian piano, coi tempi della vita, e con quegli stessi tempi sbalordirci.
Irrinunciabile anche lo squarcio sul sistema scolastico giapponese, l’attenzione eclettica agli strumenti musicali, alla letteratura e, più inconsueto, il momento in cui bambini e bambine puliscono per terra, in un’educazione domestica che parifica i generi e dà a ognuno le stesse abilità fin dall’infanzia, non facendole rimanere appannaggio di cameriere (o camerieri), casalinghe, donne delle pulizie.
Un personaggio svetta su tutti: la preside. Colei che sembra un archetipo, la villain perfetta - il mostro -, però in stile Umbridge di Harry Potter, pizzo rosa, origami e pronta a investire ragazzine e coprire violenze di vario genere. Non lo è, o di certo non è solo questo. È anche e soprattutto l’unica adulta con cui Minato, il bambino che seguiamo dall’inizio del film, svela senza svelare la sua cotta. È lei, contro ogni aspettativa (e forse proprio a causa del suo fare errori, sapere di averli fatti, tormentarcisi in privato e fuori dallo sguardo della telecamera, lei così tanto umana), a dirgli: «Se riescono a raggiungerla solo alcune persone non è felicità». È coraggioso trattare il discorso dell’omosessualità e della sua scoperta da parte di due piccoletti. È tutto quello contro cui lottano i governi reazionari, le grandi religioni monoteiste, il patriarcato: è ciò contro cui combattono quando gridano al “gender”, spauracchio inventato ad hoc. Qui c’è solo vita che fluisce. E noi abbiamo il privilegio di guardare.
Il tutto si scioglie con una riunificazione della trama, dei tre punti di vista: mamma e maestro che cercano sotto la pioggia i due bambini. I due bambini che corrono via. Suono di pianoforte, sguardo delicato del regista, un sorriso. Alla fine i due piccoli corrono; sono liberi e felici. E c’è il sole.
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Fresco di Zona 03.10.2024, 12:00