verso il pardo

Il meglio e il peggio di Locarno 78

La scelta dei critici RSI: film da salvare e film da buttare, tra quelli in concorso in questa edizione 2025 del Locarno Film Festival

  • Oggi, 18:14
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Di: Moira Bubola e Alessandro Bertoglio 

Una settimana di film è passata, e il giorno prima dell’assegnazione del Pardo d’Oro ripercorriamo le tappe cinematografiche del Concorso Internazionale di Locarno78. Ecco i film che sono rimasti negli occhi, e quelli che sarebbe stato meglio lasciare nei cassetti (oggi sarebbe meglio dire: negli hard disk), a insindacabile giudizio dei critici inviati a Locarno, Moira Bubola e Alessandro Bertoglio. Con un’avvertenza: mancano due film del Concorso, che ancora non sono stati visionati nel momento in cui scriviamo (Tabi to Hibi e Yakushima’s Illusion).

Il meglio – Mektoub My love: Canto Due di Abdellatif Kechiche

Kechiche, dopo Cous Cous e La vita di Adele, ancora una volta riesce ad incantare, con un racconto sensuale che si dipana con naturalezza. Sguardi, ammiccamenti, la forza del desiderio, la freschezza dei corpi in movimento, delle labbra che baciano e mangiano con la stessa voracità, vengono resi con grazia e maestria. Scena dopo scena, entriamo nella quotidiana intimità di questo gruppo di ragazzi, dentro dinamiche rodate da anni di frequentazione. Non sembra nemmeno di essere al cinema: siamo a Sète nel 1994, con la pelle bruciata dal sole.

Lo sguardo di Kechiche è sapiente, porta il pubblico al centro della vicenda, lo spettatore diventa parte integrante del gruppo, vibra all’unisono con la musica ascoltata a tutto volume, partecipa alle discussioni in cucina mentre si preparano gli spaghetti ai frutti di mare, e sente sulla sua pelle la crema abbronzante spalmata a piene mani, la sabbia appiccicata alle dita, il sapore del formaggio di capra.
Abdellatif Kechiche è sicuramente uno dei grandi registi contemporanei e poco importa il suo insistere sulle forme generose delle attrici, non è morbosità. È un cinema fisico il suo, sensoriale, volto a restituire la carnalità dell’esperienza umana.

Il peggio – Dracula di Radu Jude

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Dracula di Radu Jude, 2025

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Il viaggio nel mondo di Dracula in salsa Radu Jude richiede tre ore della vostra vita.
Ma cosa vi aspetta? Un’orgia visiva, piena zeppa di riferimenti cinematografici, letterari e filosofici. Esile elemento unificante di tutti gli episodi, la presenza di uno stralunato regista, che chiede continui consigli all’intelligenza artificiale su quali potrebbero essere gli ingredienti giusti per costruire un film dedicato al mito rumeno per eccellenza.

L’ algoritmo è pronto nella risposta: ci deve essere del sesso, sarà necessario strizzare l’occhio al pubblico con dialoghi semplici e scenografie colorate, senza dimenticare un pizzico di cultura per accontentare anche gli intellettuali più snob; tutto fa brodo, per dare una lettura smitizzata del terribile Vlad III di Valacchia. L’estetica è quella alla quale ci ha abituato Radu Jude: colori saturi, abbigliamento teatrale, attori dalla recitazione esasperata e situazioni grottesche, messe in scena per smascherare le ipocrisie e le contraddizioni di una società votata al capitalismo più sfrenato.

Ci si diverte, guardando questa giostra di immagini? Davvero poco. Il gioco è troppo scoperto, e c’è qualcosa di stantio in questo continuo voler stupire, esasperando situazioni e caricando ogni scena con personaggi e dialoghi che si affastellano senza arrivare da nessuna parte. Dopo Sesso sfortunato o follie porno e Do not expect too much from the end of the world, Radu Jude sembra essere arrivato al capolinea dell’ispirazione. Le commedie nere, amare e grottesche, sono un genere che – forse suona strano alle orecchie del regista rumeno – richiede misura ed equilibro. Diffidate dei cinefili più sovversivi che hanno creato un evento attorno a questo ennesimo film dedicato al vampiro più famoso del mondo.

Il meglio – Dry Leaf di Alexander Koberidze

Koberidze ha un grande senso dell’inquadratura, ed è uno sperimentatore. Sin da subito, sui titoli di testa, mi sono innamorata di un’estetica antica, fatta di fotogrammi sgranati dal colore brunastro. È un cinema originale il suo, senza essere spocchioso e velleitario. C’è un’idea forte al servizio di una narrazione semplice, sempre strutturata con intelligenza. Sorprende e incanta la capacità di mettere in risalto aspetti minimi, quotidiani, anche nella drammaticità della vicenda, che ruota intorno alla ricerca di una figlia scomparsa.

Tutto è stato girato con un vecchio telefonino, poco adatto a catturare la luce: vediamo neri, immagini bruciate, e poi arriva la calda luminosità da tramonto. Dry leaf è una sfida per lo spettatore: tre ore di lunghezza mettono a dura prova, e il linguaggio filmico scelto non scende mai a compromessi. Però rimane un film da vedere, un’esperienza immersiva totale. E il finale, poetico e surreale, indica una strada alternativa per vivere i rapporti famigliari e amicali.

Il peggio – As Estações. The Seasons di Maureen Fazendeiro

L’Alentejo è la terra al centro del racconto, e ci viene mostrata attraverso un intreccio di immagini amatoriali, dichiarazioni di lavoratori agricoli, leggende popolari, canzoni, scene di scavi archeologici, annotazioni scientifiche. Materiale vario e poco omogeneo che crea uno spaesamento confuso in chi guarda: le scene amatoriali entrano in conflitto con le parti filmate con stile da serie televisiva, gli scavi archeologici cozzano con le testimonianze dei lavoratori seduti in pausa e persi nei loro ricordi… e quando appaiono documenti scientifici a pieno schermo, l’attenzione è scomparsa già da molto tempo.

Continuavo a chiedermi fosse stato selezionato per il concorso ufficiale di un festival internazionale un film che, se lo avessi visto come lavoro di fine anno in una scuola di cinema, avrebbe lasciato seri dubbi sulla formazione impartita. Non sono riuscita, con tutta la mia buona volontà, a trovare nulla per cui valga la pena di trascorrere 82 minuti guardando As Estações. Non c’è incanto per i l paesaggio, non c’è amore per la tradizione di una terra ricca di leggende e storie, non ci sono immagini suggestive, o rivelatorie dei lati meno conosciuti di questa bellissima regione. Non c’è nemmeno il senso di sperimentazione, la volontà di creare un linguaggio nuovo. C’è solo troppo autocompiacimento, nemico mortale dell’arte in generale e del cinema in particolare.

Il meglio – Le Lac di Fabrice Aragno

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Le lac di Fabrice Aragno

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La narrazione si costruisce con le immagini, la storia non è importante. Fabrice Aragno, per molti anni collaboratore di Jean-Luc Godard, paragona il cinema alla pittura, alla musica: non deve raccontare, ma esprimere sentimenti.

C’è un lavoro capillare sul suono e sull’assenza del suono, in questo film. La natura del lago riflette gli stati d’animo di una coppia: siamo nel mezzo del lago, quando solitamente vediamo gli specchi d’acqua ripresi dalle rive oppure dall’alto. Le Lac trasporta gli spettatori sulla barca, tra le onde, sentiamo lo sciabordio, respiriamo il vento, ci immergiamo nei flutti... vediamo anche le rive, che ospitano momenti dolcissimi: giovani attorno a un falò, un padre con sua figlia.

I due protagonisti osservano con tristezza e malinconia questi momenti, a loro ormai negati dal passare degli anni e da una tragedia che li ha travolti. Capiamo del dramma che hanno dovuto affrontare grazie ad alcuni flash back, puliti, ellittici ed eleganti. Il linguaggio cinematografico è il fulcro del lavoro, c’è intensità e grande sensibilità visiva. Da vedere per tutti coloro che rimangono incantati ascoltando una sinfonia, o che si perdono di fronte a un dipinto.

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