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Black Horror: il vero mostro è il razzismo

Da “Get Out” a “Candyman”, il cinema afroamericano trasforma l’orrore in strumento di verità e resistenza

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Chris Washington (Daniel Kaluuya) nel film "Get Out" (2017) di Jordan Peele's

Di: Red./cava 

Nel buio della sala, mentre lo spettatore trattiene il fiato scorgendo un’ombra si muove sullo sfondo della pellicola, qualcosa di più profondo si agita sotto la superficie. Non è solo paura. È storia. È trauma. È resistenza. È Black Horror—un genere che non si limita a spaventare, ma che interroga, denuncia e ricostruisce.

Da Get Out a Nope, passando per Candyman e Us, il Black Horror ha conquistato il grande schermo con una forza narrativa che va oltre il brivido. È un cinema che mette in scena non solo mostri e fantasmi, ma anche le cicatrici lasciate da secoli di oppressione. Come afferma il critico Massimiliano Martiradonna, intervistato da Elisa Rossello in Alphaville, «Black History is Black Horror»: la storia degli afroamericani è già di per sé una storia dell’orrore.

14:28

Black Horror

Alphaville 06.08.2025, 11:45

  • Imago Images
  • Elisa Rossello

Il 2025 è considerato un anno di svolta per il Black Horror e, più in generale, per il cinema afroamericano. Innanzitutto per l’uscita di Sinners, diretto da Ryan Coogler e interpretato da Michael B. Jordan: un horror soprannaturale che affronta il trauma e l’identità nera, consolidando il genere come veicolo di denuncia sociale; in secondo luogo perché nel 2025 si registrano produzioni significative non solo negli Stati Uniti ma anche nel Regno Unito, in Francia e in altri paesi con un passato coloniale. Questo riflette una crescente attenzione internazionale verso le narrazioni afrocentriche.

L’orrore come specchio sociale

A differenza dell’horror tradizionale, che riflette le paure della classe dominante bianca—l’invasione, il diverso, il caos—il Black Horror ribalta la prospettiva. Qui il “mostro” non è l’altro, ma la società stessa: razzista, violenta, indifferente. È il poliziotto che spara senza motivo, è la casa che non accoglie, è lo sguardo che giudica. È la paura di essere neri in un mondo che ti percepisce come minaccia.

In Candyman, il protagonista non è un demone astratto, ma un ex schiavo brutalmente ucciso per aver amato la figlia del suo padrone. Il suo ritorno come entità vendicatrice non è solo horror: è giustizia poetica, è memoria che non vuole essere cancellata.

Come spiega Martiradonna, membro del collettivo Dikotomiko autore di Black Fears Matter!. Viaggio nel black horror contemporaneo da Michael Jackson a oggi., «lo stigma di essere neri» è il cuore pulsante di questo genere. E aggiunge: «per i neri c’è la paura della dominanza, quindi l’eredità dello schiavismo».

Cinema come atto politico

Il Black Horror non è solo un genere: è un movimento culturale. È il tentativo di riscrivere una narrazione che per troppo tempo ha escluso, distorto, marginalizzato l’esistenza degli afrodiscendenti. Il Black Horror nasce dal rifiuto del cliché “il nero muore per primo” e rivendica una forma di protagonismo, di complessità, di umanità.

Jordan Peele, con la sua Monkeypaw Productions, ha aperto una nuova era. Get Out non è solo un thriller psicologico: è una dissezione chirurgica del liberalismo razziale, una satira feroce sull’appropriazione culturale e il controllo dei corpi neri. Il suo successo dimostra che il pubblico è pronto—anzi, affamato—di storie che non si accontentano di spaventare, ma che vogliono far pensare.

Un genere globale, una ricezione diseguale

Negli Stati Uniti e in parte dell’Europa, il Black Horror ha trovato terreno fertile. In Italia, invece, fatica ancora a imporsi. Secondo Martiradonna, ciò è dovuto a una certa «provincialità» del pubblico italiano, per cui «identificarsi in un nero risulta ancora difficile».

Anche fuori dagli USA, il genere sta germogliando. In Francia e Inghilterra, paesi con un passato coloniale complesso, emergono produzioni che esplorano il trauma postcoloniale. In Africa, invece, l’horror tende a intrecciarsi con spiritualità e tradizioni locali, offrendo un’altra declinazione del terrore.

Il vero orrore è quello che abbiamo vissuto

Il Black Horror ci ricorda che gli incubi più spaventosi non sono quelli inventati, ma quelli reali: la schiavitù, la segregazione, la violenza istituzionale. Eppure, in mezzo a tutto questo, c’è anche speranza. C’è resistenza. C’è la volontà di raccontare, di sopravvivere, di trasformare il dolore in arte.

Come sottolinea Martiradonna, questi film non ci chiedono solo di guardare, ma di vedere. Di riconoscere. Di ascoltare. Di riflettere su chi siamo e su chi abbiamo escluso dalle nostre narrazioni.

Il Black Horror è qui per restare. E se ci fa sobbalzare sulla poltrona, è solo perché ci sta svegliando da un lungo sonno culturale.

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