Ha picchiato Uma Thurman, fatto disastri con Cameron Diaz e Drew Barrymore, ammazzato il marito e le sue due amanti, rubando la scena a Renée Zellweger e Catherine Zeta-Jones. Poi il ruolo più difficile e naturale di tutti, quello di mamma. Il risultato? La miglior Lucy Liu di sempre. Piazza Grande accoglie un’altra stella di Hollywood per consegnarle il Career Achievement Award e poi godersi la sua ultima interpretazione in Rosemead, di Eric Lin - che i rumors già proiettano verso altre notti di stelle, luci e premi.
A vederla, sembra impossibile che Lucy Liu possa avere più di trent’anni di carriera alle spalle. E invece: 1991, Beverly Hills 90210. La ragazza di New York con mamma e papà taiwanesi si muove sullo sfondo di Brandon, Dylan e Kelly. E poi del Dottor Ross e del Dottor Green (E.R. - Medici in prima linea) e di Mulder e Scully (X-Files). La televisione che gli cambierà la vita però deve ancora arrivare, manca giusto una manciata di anni. È il 1998 e la sua traiettoria nella sceneggiatura di Ally McBeal, quella della giovane avvocatessa Ling Woo, racconta perfettamente la sua parabola cinematografica: da comprimaria a protagonista.

Lucy Liu e Uma Thurman in Kill Bill Vol. 1, 2003
Nel 2000 è una Charlie’s Angel, nel 2002 è nel cast stellare di Chicago, diretto da Rob Marshall e scritto da Bill Condon (che sarà protagonista dell’ultima notte di Locarno78, sabato sera, con il suo Kiss of the Spider Woman). Nel 2003 fa doppietta, di nuovo Charlie’s Angels e poi niente meno che Kill-Bill vol. I. Ed è lì, sul set di Quentin Tarantino che Lucy Liu se le dà di santa ragione con La Sposa, Uma Thurman. Nel 2005 è in Domino di Tony Scott e poi, a proposito di cast stellari, nel 2006 è con Josh Hartnett, Morgan Freeman, Bruce Willis e Ben Kingsley in Slevin - Patto criminale di Paul McGuigan. Ma Lucy Liu non è soltanto uno dei corpi più esili e resistenti e uno degli sguardi più taglienti di Hollywood; è anche una voce, che dietro ai microfoni del doppiaggio caratterizza i Simpson, Futurama, Kung Fu Panda, Mulan.

Lucy Liu in The Man With The Iron Fists di RZA, 2012
Lucy Liu è quella parte del cinema senza il quale non esisterebbero le altre, anche le più luminose. È carattere, completezza, silenzi e complessità. È una di quelle interpreti capaci di dare profondità alle sceneggiature, di costruire l’insieme, di permettere alle storie di essere credibili oltre il primo livello. È una di quelle attrici “assicurazione”, che fanno star sereni i registi. E quando ti aspetti che non possa che essere così, perché così dicono i suoi trent’anni davanti alla macchina da presa, ecco Rosemead. Un film che Lucy Liu non solo ha interpretato a meraviglia, ma che ha anche voluto e saputo costruire passo dopo passo, come produttrice, al fianco di Eric Lin, direttore della fotografia all’esordio da regista.

Lucy Liu in Rosemead di Eric Lin, 2025
In Rosemead Lucy Liu è una madre malata terminale che al dramma di vedere la morte a un passo aggiunge quello - ancor meno sopportabile - di dover abbandonare un figlio che ha estremamente bisogno di lei. E a mano a mano che si sfogliano le pagine della sceneggiatura, da cancer movie il film diventa un dramma familiare, genitoriale e sociale. Perché quella di Irene (lei) e Joe (Lawrence Shou), non è soltanto una storia di madre e figlio, è anche la storia di una società emarginante, di una California marginale, degli Stati Uniti delle contee, in cui i confini sono decisamente più marcati di quelli disegnati sulla mappa. Rosemead è una storia vera, quel che racconta è successo. E quel che è successo è la storia di una mamma senza strumenti, che affidandosi e aggrappandosi al più potente di tutti, l’amore, cerca di trovare una soluzione che possa fermare il tempo. Ad ogni costo.
Rosemead è un film sull’America, sulle sue tante comunità che non diventeranno mai (?) una sola. È un film sulla malattia e la malattia mentale, sull’adolescenza e l’età matura, quella destinata biologicamente a scivolare verso la vecchiaia, ma che a volte il destino imbroglia, precipitando all’improvviso. È una storia di ignoranza innocente, mai cattiva, ma disperata. Di fragilità sociale e reazione solitaria. È una storia della cultura del silenzio. Ma prima ancora, o alla fine di tutto, Rosemead è una di quelle storie destinate a scomparire nello stesso contesto modesto su cui hanno vissuto, semi-trasparenti, e che grazie a un film invece (r)esistono. E che Lucy Liu, con un’espressione perennemente in bilico tra la dignità di una donna e la disperazione di una mamma, racconta in maniera esemplare.
Come fosse di nuovo in seconda fila, sullo sfondo, dove l’obiettivo sfoca e l’America sparisce. E invece no, grazie a lei.

La giornata del Festival
Il Quotidiano 14.08.2025, 19:00