Cinema

Il nuovo Mean Girls è una delusione

Genealogia di un grosso fraintendimento

  • 28 gennaio, 06:27
  • 31 gennaio, 11:16
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Di: Valentina Mira

È uscito il nuovo Mean Girls. Non si sta parlando del sequel, che pure c’è stato. E neanche dell’adattamento teatrale. Si sta parlando dell’adattamento cinematografico dell’adattamento teatrale. Diciamocela tutta: non prometteva bene fin dal principio. Ma lo strazio che si è fatto di uno dei film più iconici di sempre, più generazionali, è qualcosa che parla di assenza di cura per l’immaginario collettivo. Dannazione, Tina Fey: come hai potuto permetterlo?

Ma partiamo dall’inizio.
Il vero Mean Girls esce nel 2004. Non lo sanno tutti, ma nasce da un libro. Un saggio, per la precisione. Si chiama “Adolescenti terribili”, di Rosalind Wiseman. Ha un sottotitolo che lo rende la bibbia per le madri di figlie timide: “Come aiutare vostra figlia a sopravvivere alle «amiche», ai pettegolezzi, ai ragazzi e ad altre realtà dell’adolescenza”. Diventa, ovviamente, il libro che le suddette figlie timide rubano alle madri. Per uscirne capendoci ancora di meno della socializzazione. E del sessismo, che informa queste pagine, comunque divertenti, ma sicuramente poco o nulla femministe - il contrario. Dividono le ragazze in categorie, intenzione autoriale che dal titolo nella sua versione originale si capisce di più: “Queen bees and wannabes”, un bel gioco di parole, in apertura di un tomo che descrive giochi di potere e non amicizie. Lo salva l’ironia. Identicamente per il film che ne è stato liberamente tratto, e che è brillante e buffo proprio perché consapevole di essere tutto fuorché femminista. Mean Girls era Rachel McAdams, Lindsay Lohan, la sceneggiatura brillante di Tina Fey del Saturday Night Live (qui anche attrice), l’altrettanto buona regia di Mark Waters (lo stesso di Quel pazzo venerdì, sempre con una Lindsay Lohan all’apice della carriera).

Il film è invecchiato discretamente male - benché il fatto che una generazione intera di donne e non solo donne ne conosca e citi a memoria le battute sia la prova che, nonostante ciò che viene scritto in giro, il femminismo moderno non è affatto censore e arbiter elegantiarum, al contrario riconosce contesti e si diverte a giocare con i cosiddetti layers, gli strati d’ironia - per cui l’idea di un remake non era del tutto peregrina. Peccato per la sua realizzazione.

Riadattare un film all’oggi non significa limitarsi a metterci dentro i social. Non basta accennare alle dinamiche di cyberbullismo che si associano al comune bullismo potenziandolo. Benché faccia ridere, trasformare l’invito del preside a non fumare in “non svapate” non è sufficiente a salvare un riadattamento che sa di vecchio. E sa di vecchio perché interpreta le esigenze di un pubblico nuovo e più consapevole come se fossero, appunto, la volontà di censura di cui sopra. Restando sessista nella sostanza. Un esempio per tutti: c’è un momento, nel film originale, in cui Damien viene presentato dalla sua migliore amica come “quasi troppo frocio per essere vero”. È risaputo in ambienti femministi una parola come frocio, se usata in contesti sicuri, non come un’offesa insomma, è accettabile: una riappropriazione. Si fa, è positivo e lo era nella versione originale, perché era un’auto-definizione (non esce dalla bocca di una persona etero, per capirci). Invece qui diventa “è quasi troppo gay per essere vero”. Se a questa scelta terminologica non si affianca un racconto meno discriminante dell’originale, il tutto più che un aggiornamento diventa un formalismo, un “metterci una pezza”. Regina George alla fine del film si trova in una situazione di disabilità e con un collare ortopedico: nell’originale al momento del lancio della corona la prendeva al volo. Qui non la afferra e non importa a nessuno. Non si capisce se sia un tentativo di fare dell’umorismo malriuscito e abilista, né si capisce come questo sia compatibile con quel momento della trama: quando Cady si riscopre “buona” e non mean, appunto. Non è sufficiente neanche fare blackwashing trasformando tre dei protagonisti in persone nere, anche se di certo fa piacere il progresso nella rappresentazione. Il punto è che la rappresentazione ha a che fare anche con la sostanza e non solo con la forma. E qui la sostanza è riuscita anche a peggiorare. Rendendo incomprensibile, se non dal punto di vista del marketing, la necessità di un remake.

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Qualche lato positivo il nuovo Mean Girls ce l’ha, per carità. Non il fatto che si tratti di un musical, assolutamente no. Il fatto che spieghi meglio qualche personaggio, questo sì. È un film per ossessionati dall’originale, che hanno abbastanza pelo sullo stomaco da vedere fatto a pezzi un caposaldo della loro adolescenza cinematografica, pur di conoscere la vera storia di Janice e Regina (raccontata peraltro da un ottimo Jaquel Spivey, a cui va la nota di merito non solo di non far rimpiangere l’indimenticabile Daniel Franzese, ma di superarlo, quasi: Jaquel Spivey non è black washing, è un attore più che all’altezza del ruolo). Di positivo c’è anche una maggior caratterizzazione di Cady, la protagonista, che fa l’occhiolino senza volerlo al vero pubblico di Mean Girls: ragazze socialmente impacciate alla disperata ricerca di un libretto d’istruzioni. Cady infatti nel nuovo film dice (canta, in realtà) di essere “smart with math but stupid with love”. Intelligente in matematica ma stupida in amore. Le adolescenti meno neurotipiche alla visione si sentono un po’ più comprese, forse.

Gli attori sono quasi tutti diversi, come si accennava. A interpretare il ragazzo dei sogni (un ruolo veramente invecchiato male) Aaron Samuels è Christopher Thomas Briney, nato nel 1998 e noto per L’estate nei tuoi occhi. Più o meno la stessa età ha l’intero cast studentesco. E viene da chiedersi: ma come mai i film statunitensi continuano a propinarci gente più adulta in ruoli di liceali? Quando si sente qualcuno dire “io non sembravo così adulta alla sua età” rispetto alle nuove generazioni si tiene conto dell’assurda pressione che il cinema fa proprio rispetto a questa adultizzazione? Il cinema ti dice: a sedici anni sembri così. E quel “così” ha la faccia di un ventiseienne, perché è un ventiseienne.

Mean Girls

RSI Cultura 25.01.2024, 13:30

  • © 2011 Paramount Pictures

Ma ci stavamo soffermando, pur con fatica, sui lati positivi del film. A fare un cameo è la stessa Lindsay Lohan, che ti fa sentire a casa nel ruolo della giudice del concorso dei Matleti. Ci sono Tina Fey e Tim Meadows negli stessi ruoli (lui era il preside Duvall): e finalmente stanno insieme nel film, come se fosse parzialmente un sequel. Un’altra scelta simpatica è nel famoso dialogo davanti allo specchio: le “Barbie” si guardano a casa di Regina e si odiano da sole, si criticano parlando di pori dilatati e cosce grosse, e Cady - quella socialmente inesperta - stavolta dice esplicitamente: «Anch’io, sono brutta anch’io!». Per chi ha visto l’originale questa svolta fa ridere ad alta voce, perché è il film che si fa farsa di se stesso e funziona.

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Alcune modifiche alla sceneggiatura originale sono inspiegabili: come quando Cady calcola le calorie da grassi per Regina e spiega una banalissima equazione; nel film del 2004 si parlava di “prodotto incrociato”, qui di “regola del tre”. Non che non esista - sono la stessa cosa - ma nelle scuole in lingua italiana non spiegano così le equazioni, quindi probabilmente si tratta di un bizzarro lost in translation. Che, di nuovo, parla di assenza di cura.

La morale della favola è che le Cady Aaron del mondo sono cresciute, Mean Girls è invecchiato. E male, malissimo. Stavolta nessuna si preoccuperà che Regina George raccolga il suo pezzo di corona, perché la lezione che abbiamo imparato è: chi non dà cura non si aspetti cura. Vale anche e soprattutto per chi racconta le giovani donne senza rendersi conto della responsabilità che ha.

  • Rosalind Wiseman
  • Lindsay Lohan
  • Rachel McAdams
  • Tina Fey

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