Se un film torna da Cannes con in tasca qualcosa che luccica, tipo un Gran Prix Speciale della Giuria, difficile che di lì a breve non lasci un segno anche in sala. Se poi la sala è di diciassettemila metri quadrati, lo schermo un campo da basket appeso e il pubblico quello del Locarno Film Festival, il segno può diventare un solco.
Sentimental Value, di Joachim Trier, ha tutto quello che ci vuole per lasciarlo, un solco. Per lasciare la Piazza Grande sospesa, leggermente stordita e innamorata. Stordita da un film e innamorata di un film che fa fare la pace con il cinema, che lo riporta al centro delle esperienze irrinunciabili perché sarebbe davvero stupido, o sadico, rinunciare al bello. E Sentimental Value è così, bello.

Joachim Trier e il cast di Sentimental Value a Cannes 2025
Bello come il suo titolo originale, Affeksjonsverdi, che non sai dirlo ma suona bene. Bello come il suo incipit, che sembra rubato alle pagine di Qui di Richard McGuire, con mura immobili nello spazio ma inarrestabili nel tempo. Un inizio che fa parlare crepe e scricchiolii, finestre lasciate aperte e porte sbattute, stanze che fanno il proprio lavoro per più vite e stanze che per qualcuno diventano l’ultimo qui. Un inizio che in pochi minuti, altrettante inquadrature e un’infilata di movimenti, ci ricorda quanto le case sanno di noi, e quanto noi siamo le nostre case.
Sentimental Value è la storia di una famiglia. Di chi è rimasto, di chi se ne andato, di chi è arrivato e di chi è tornato, o vorrebbe tornare. È la storia di un padre, Gustav (Stellan Skarskård), e delle sue due figlie, Nora (Renate Reinsve) e Agnes (Inga Ibsdotter Lilleaas). Di un rapporto interrotto sulla scia nera della morte (scelta) di mamma, di un padre che non c’è più stato e di due sorelle che invece sì, tantissimo, l’una per l’altra.
Sentimental Value è una storia di cinema e teatro, dunque di finzione: Gustav è un regista, Nora un’attrice. Ma a dominare la scena, tra la sceneggiatura dell’ultimo film di lui e la parte da protagonista rifiutata da lei, è il reale e i sentimenti che lo attraversano, tutti, ventaglio completo. L’arte, protagonista delle vite di entrambi, è lo strumento con cui provano a maneggiarli e domarli. In lei esplode e in lui governa, per lei è foglio bianco su cui esprimersi, per lui Manuale di istruzioni con cui capire.
A proposito di manuali, Sentimental Value è un film scritto perfettamente, da Joachim Trier e da Eskil Vogt, che di Trier ha co-scritto l’intera filmografia e che accompagnerà il film in Piazza Grande, sabato. E come sempre, quando un film è meravigliosamente scritto la partitura non si sente e affiora il vero(simile). Il nero su bianco svanisce e restano gli occhi sui visi e le mani sui corpi. Perché Sentimental Value è anche un meraviglioso film d’attore (e d’attrici…), palcoscenico per interpretazioni in grado di sfidare e vincere il confine con il reale.
Una storia familiare che più che essere interpretata sembra essere vissuta, davvero. Una su tutte la scena tra le due sorelle, che celebra il titolo, allenta la corda stretta attorno alla trama e annoda la gola di chi guarda. Di nuovo occhi, visi, mani e braccia, ché i sentimenti non abitano esclusivamente tra testa, pancia e cuore. Anzi. Il film di Trier e l’interpretazione di Reinsve, gigantesca, sono nei tumulti che tutti conosciamo, abbiamo vissuto almeno una volta, e immediatamente riconosciamo. Nelle parole che si ingolfano in gola caricando gli occhi di lacrime, nelle vampate di rabbia che accendono collo e sudori, nel farsi tenerezza perché smarriti o indifesi, in uno sguardo ricambiato e ricamato con tutte le parole (mute) di cui avevamo bisogno. Insomma nell’essere figlio, papà, sorella, zia, nipote. Relazioni, affetti.

Nel cinema luminoso di Sentimental Value dominano anche le scenografie, o forse la scenografia. Quella meravigliosa casa che è prigione e palcoscenico, tomba e nido, non a caso principio e fine. Vecchia e labirintica, luminosa, con una stufa a fare da spia (ok, probabilmente non è una citazione di Jean-Pierre Jeunet, ma il gioco è lo stesso di Delicatessen) e ogni stanza a fare da set. In quella casa si muovono tutti, spiriti compresi. Si muovono loro tre, padre e figlie, si muove Erik, il nipote metronomo inconsapevole, si muove una bravissima Elle Fanning nel ruolo di “figlia in prestito”. Lei è l’attrice a cui Gustav affida la parte di Nora dopo il rifiuto di lei; un ruolo perfettamente in bilico ed equilibrio tra il bisogno e la consapevolezza, la soggezione e la maturità, la professione e l’intimità. Forse il ruolo meno sofisticato e dunque ancor più difficile da gestire in mezzo a tutta quell’umanità spremuta e splendente.
Al suo sesto film in vent’anni Joachim Trier conferma tutto quello che dai tempi di Reprise (2006) ci fa pensare, e che con La persona peggiore del mondo (due nomination agli Oscar) aveva già abbondantemente palesato: che sa tradurre gli esseri umani e che ha una notevole intelligenza visiva. In due parole, sa fingere. In una, il cinema.
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Alphaville 08.08.2025, 12:35
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