Cinema

Martin Scorsese

Una lunga lezione di cinema

  • 17 novembre 2023, 08:50
  • 17 novembre 2023, 15:29
Il cineasta americano Martin Scorsese (1).jpg
Di: Fabrizio Coli

Sentirlo parlare vuol dire immergersi nel cinema, nella sua storia, in un mondo di conoscenze minuziose, accumulate nel corso di una vita e regalate al pubblico con autentica e trascinante passione. Seguire la presentazione di un suo film si trasforma puntualmente in un’occasione per imparare un bel po’ di cose su altri grandi e sulle emozioni che hanno sapute dare. Non è solo un regista leggendario. È come un professore venuto dalla strada che, condendo il discorso con i suoi gergali «You Know…», ti racconta quello che visceralmente ama e lo fa amare a chiunque gli stia intorno. Martin Scorsese, classe 1942 (17 novembre). Un monumento della settima arte che unisce una marcata e personale dimensione di autore con la potenza e l’accessibilità del cinema autenticamente popolare e che dalla Nuova Hollywood in avanti ha segnato il nostro immaginario filmico.

New York è la sua città. Ci è nato, in una famiglia italoamericana, e ci è cresciuto, prima nel Queens e poi nella Little Italy di Manhattan. Conosce quelle strade, conosce le figure che vi si muovono. Le ha ritratte, le ha rese protagoniste di molti dei suoi capolavori. Difficile dare spiegazioni semplici alla complessità del genio, ridurne la grandezza a un solo episodio. È un giochino sterile, senza senso. Eppure c’è qualcosa in Scorsese che lo ha indirizzato verso il suo percorso, già fin dalla tenera età in cui gli sono state precluse molte delle attività tipiche dei bambini. La grave forma d’asma di cui ha sofferto – ha avuto modo di raccontarlo lui stesso – da una parte gli ha tolto la possibilità di fare le cose che normalmente fanno i ragazzini, giocare, fare attività fisica, ridere a crepapelle… dall’altra gli ha aperto altri mondi e gli ha pure permesso di tenersi lontano dai guai in quegli ambienti tosti che in seguito descriverà in maniera così intensa nei suoi film. Ha potuto osservare, osservare bene quello che aveva attorno: la sua famiglia, prima di tutto – una volta cresciuto, la immortalerà nel documentario del 1974 Italianamerican che contiene molto del suo cinema a venire – poi il quartiere, le sue figure. A nutrire la sua immaginazione e la sua voglia di raccontare ci sono John Ford, Orson Welles e i loro capolavori; c’è Elia Kazan con Fronte del porto dove un Marty ragazzino rivede quegli stessi ritratti umani che conosce, gente reale che somiglia a quella del posto dove è cresciuto. Poi De Sica, poi Rossellini, in un percorso che continua a offrirgli sempre nuovi spunti, nuove fascinazioni, su su verso la Nouvella Vague. Inevitabile l’iscrizione all’inizio degli anni Sessanta al corso di cinematografia della New York University e da lì poi cominciare a fare sul serio, con le esperienze alla corte di Roger Corman e poi spiccando il volo per conto proprio.

Diciamo il nome di Martin Scorsese e immediatamente ci vengono alla mente i film di gangster, scene di vita di strada e microcosmi urbani. Il Mean Streets (1973) degli esordi, la grandiosità articolata e matura di Goodfellas (1990), Casinò (1995) o di The Departed, che nel 2007 gli regalerà il suo unico Oscar alla regia dopo una serie infinita di candidature. Ma – lo sanno anche i sassi – relegarlo in quest’ambito solo è riduttivo, quando il suo cinema nel corso dei decenni è stato capace di prendere innumerevoli forme. Ha fatto quasi tutto. Nella sua filmografia ci sono affreschi storici e spirituali: da L’ultima tentazione di Cristo (1988) che tanto scalpore e censure suscitò, a Kunduun (1997) sul quattordicesimo Dalai Lama, al più recente Silence (2016) sulle persecuzioni dei cristiani nel Giappone del XVII secolo, testimonianze dell’educazione di Scorsese, che da giovane aveva anche pensato di prendere i voti. Ci sono commedie stralunate diventate autentici cult come Fuori orario (1985). Addirittura un musical, New York, New York (1977) che fu uno dei suoi flop. Un mondo di film che trasuda amore per il cinema, certe volte in maniera esplicita, come nel monumentale The Aviator (2004) e nelle sfide produttive del folle miliardario Howard Hughes, altre dove persino scommesse tecniche, come il 3d usato per Hugo (2011), si trasformano in una lettera d’amore a pionieri come Georges Méliès. Questo amore riverbera sempre, anche in modalità più nascoste, come negli istanti finali dell’Ultima tentazione di Cristo nella gloria di una pellicola che letteralmente esce dalla macchina da presa e si dissolve o nella ridda di riferimenti che punteggiano il thriller Shutter Island (2010) o il remake di Cape Fear (1991).

Un eclettismo quello di Scorsese che si manifesta anche quando si articola attorno a temi ricorrenti – perché ci sono eccome nel suo cinema – che riesce a declinare in forme sorprendenti. Temi come lo spazio urbano, protagonista di molti dei suoi film più riusciti, temi come quello della colpa, quasi onnipresente, temi anche e soprattutto come quello della violenza. Una violenza che emerge in maniera esplicita nei suoi gangster movie, ma vive con altrettanta potenza nello straniamento interiore di un tassista traumatizzato e senza pace che percorre le strade di notte, il personaggio iconico di Travis Bickle nato dalla penna dello sceneggiatore Paul Schrader intinta nella depressione e nel cupo esistenzialismo di Camus per quel Taxi Driver che nel 1976 a Cannes conquistò la Palma d’oro. Una violenza che sa essere viscerale e farsi allo stesso tempo stilizzata nella ferocia dei pugni di Jake LaMotta in Toro Scatenato (1980) fra ralenti, musica operistica, sangue sul ring e melodramma. Oppure ancora può diventare motivo fondante di una nazione, come nel kolossal Gangs of New York (2002) o viceversa sublimarsi totalmente nella raffinatezza di un altro film in costume come L’età dell’innocenza (1993), dove sono le rigide convenzioni sociali a imporsi con la forza anche senza bisogno di dover ricorrere a una pistola puntata alla tempia.

Virtuosismo, attenzione ai dettagli. Scorsese è tutto questo e molto di più. Il suo è un cinema dai molteplici strati e dalla grande complessità. Tanti sono gli elementi che lo rendono ricchissimo e almeno un paio ancora vanno citati. Uno è quello che riguarda la fedeltà e l’affidabilità di chi lavora con lui. Come Thelma Schoonmaker ad esempio, la montatrice mille volte al suo fianco che con lui ha conquistato l’Oscar per Toro scatenato. E prima ancora ci sono gli attori, attori feticcio. A cominciare da Robert De Niro, nel momento, negli Anni Settanta, in cui con tutta probabilità era il più grande attore del mondo, grazie anche proprio a ruoli che non potremmo mai pensare affidati ad altri come quelli Travis Bickle o di Jake LaMotta. L’altro, dagli anni 2000, è Leonardo DiCaprio e anche qui Scorsese è stato fondamentale nel farlo diventare quel primo della classe che è. Attorno a loro, altri interpreti meravigliosi, come Joe Pesci o come Harvey Keitel che praticamente ha debuttato proprio nel primo film di Scorsese, Who’s That Knocking at my Door (1967).

Non basta. C’è ancora la musica, sì la musica, che il regista gestisce con una maestria pari a quella che ha per le immagini. Non è un amore passeggero, ce l’ha nel sangue e ne ha dato prove continue. Da The Last Waltz, documentario sui The Band a No Direction Home su Bob Dylan, dal film concerto dei Rolling Stones Shine A Light all’uso memorabile dei brani proprio degli amati Jagger e Richards sempre presenti nel suo cinema a rendere grandiose scene come l’entrata di De Niro/ Johnny Boy al bar in Mean Streets sulle note di Jumping Jack Flash o la livida e funerea introduzione di The Departed con Gimme Shelter. Per non parlare di mille altre incursioni, dal videoclip di Bad di Michael Jackson ai documentari dedicati al blues alla fantastica fiction sull’industria discografica nella New York degli anni Settanta, Vinyl, naufragata dopo la prima stagione a causa dei costi esorbitanti, alle collaborazioni con artisti come Peter Gabriel al quale è stata affidata la colonna sonora de L’ultima tentazione di Cristo.

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