Cinema

Perfect Days, film senza eroi

Una critica non binaria all’ultimo Wim Wenders

  • 1 febbraio, 07:13
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Kōji Yakusho in "Perfect Days"

Di: Valentina Mira

«Sono convinto che se Perfect Days fosse durato 2 ore e 3 minuti di meno mi sarebbe piaciuto», scrive in una storia su Instagram un bravo scrittore e traduttore, Marco Rossari.
L’ultimo film di Wim Wenders è davvero così sgradevole? Ha invece ragione chi lo racconta, non senza un po’ di retorica, come un “inno alle piccole cose della vita”? Oppure c’è un modo di parlarne che non si lascia ingabbiare nel binarismo social e quindi ridurre alla diatriba tra chi grida al capolavoro e chi, comprensibilmente sconfortato dai luoghi comuni e dall’incensamento collettivo, si scoccia e ironicamente sentenzia l’assoluta inutilità dello stesso film? Qui si proverà a percorrere questa via, una critica effettiva del film che non punti a distruggere né a esaltare, solo ad analizzare.

La cosa davvero interessante di Perfect Days è che è un esperimento. Un esperimento portato avanti da un regista esperto, più che settantenne. La premessa è che ci sono degli schemi e delle regole rispetto a come si scrive una sceneggiatura. Si segue, per esempio, il cosiddetto viaggio dell’eroe, un’elaborazione più moderna (teorizzata da Christopher Vogler e insegnata in tutte le scuole di scrittura) della struttura in tre atti di Aristotele. Non si tratta di uno schema rigido né privo di varianti, tuttavia è pur sempre uno schema. E questa è la prima cosa che salta in Perfect Days: non c’è una sceneggiatura che vi si conforma. L’altra cosa, forse ancora più evidente, che viene ribaltata da Wenders è il principio di Hitchcock per cui: «Il film è la vita senza le parti noiose». Sia il viaggio dell’eroe che questa interpretazione del cinema puntano a restituire allo spettatore l’impressione di un senso. Diversamente dalla vita, dove puoi provare a trovarlo, a fartene uno, a far pace con la tua idea che non ci sia, eccetera.

Perfect Days vuole invece essere arte mimetica della vita. Prende un individuo e lo segue. Non c’è nessun “mondo straordinario”, nessun eroe. E questo può essere tranquillamente inteso come un pregio del film. Senza voler dare voti, la cosa rilevante è semplicemente che Wim Wenders ha inteso sfidare le regole seguite (da qualcuno meglio, da qualcun altro peggio, comunque tendenzialmente da tutti e talvolta perfino in maniera pedissequa) da chi lavora nel cinema.

Cosa si trova, quindi, sullo schermo? Una vita molto normale. Le “piccole cose” di cui sarebbe l’inno secondo parte della critica non sono altro che il racconto di una routine: il protagonista che si taglia i baffi, che spruzza l’acqua sulle sue piantine e poi fa uno di quei sorrisi appena accennati che abbozziamo talvolta quando sappiamo di essere da soli. Sorrisi non dimostrativi, intimi, a cui di solito gli altri non hanno accesso e invece stavolta, complice la telecamera, sì. Quei sorrisi sono forse il miglior elemento dell’interpretazione di Kōji Yakusho nei panni del personaggio principale, Hirayama.

Nella vita pulisce bagni pubblici. Sempre seguendo il suo intento mimetico Wim Wenders non gli fa mettere subito i guanti, per cui lo vediamo raccogliere da terra cartacce a mani nude (e se la persona al tuo fianco al cinema mugola di disgusto in questo specifico punto, apprendi che potrebbe non aver mai svolto lavori che hanno a che fare con le pulizie). Hirayama è un mite, ma non significa che il regista adotti uno sguardo condiscendente sulle persone che lo circondano: non manca il ritratto di piccole meschinerie quotidiane, dal tizio che gli rovescia oggetti di lavoro perché va troppo veloce e non dice neanche “scusa”, alla mamma che pulisce con la salvietta la mano di suo figlio dopo essere stata in quella dell’uomo delle pulizie, e questo gesto di disgusto classista mascherato da cura per il piccolo glielo fa pure davanti.

“Perfect Days”

La Recensione 26.01.2024, 10:35

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Hirayama non vuole problemi, non ne cerca (ne ha avuti già troppi?, questo lo intuiamo semplicemente, quando intravediamo la sua backstory familiare dall’incontro con la sorella). Non sembra uno di quelli adatti alla vita contemporanea, al capitalismo, all’homo homini lupus e a certe micro-aggressioni continue a cui ti sottopone, soprattutto se sei una persona gentile. Tuttavia, sopravvive. Ha la sua bolla di serenità. È un personaggio in cui ci si può rivedere davvero, se si è fatti in questo modo. Se, come Hirayama, si ha una vita lavorativa e affettiva che non dà grandi soddisfazioni, che si traggono al contrario dalla musica, dai libri, dal regalarsi una cena fuori a fine turno, da soli e non con un Tinder date.

Il peso delle canzoni nel film è assolutamente identico a quello che hanno nella vita (almeno per chi ama la musica). Non servono a sottolineare una svolta di trama, sono esplicitamente la cassetta che mette su in macchina Hirayama mentre va o torna dal lavoro, il modo che trova di darsi una colonna sonora, di mantenere l’umore a un livello accettabile.
L’esperimento di raccontare la vita senza tagliar via le parti noiose è interessante e riuscito, perché non c’è un accanimento sadico da parte del regista. Detto questo, da qui a gridare al capolavoro c’è un bel tragitto. Perché c’è un motivo se si tagliano via le parti noiose della vita dai film: ed è che sono noiose.

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C’è, poi, qualcosa di stonato nell’assistere alla romanticizzazione della vita di un proletario da parte di un regista famoso. Una visione consolatoria imposta dall’alto, una fantasia d’evasione sì, ma solo per chi non fa le pulizie per davvero. Quando si sceglie, poi, di fare un film così poco verbale, le poche parole dei dialoghi andrebbero scelte con estrema cura. Nel rapporto - pur bello e tenero, verosimile e dolce - tra lui e la nipote Niko che scappa di casa, la famosa scena in cui lei gli propone di andare al mare e lui risponde di no, e che andranno un’altra volta, e allora Niko gli chiede quando e lui risponde “un’altra volta è un’altra volta - adesso è adesso” e lei lo ripete come fosse un mantra; qui, il dialogo risulta forzato. La retorica life is now è stata esplorata da compagnie telefoniche, santoni che si rifanno a filosofie orientali spesso senza conoscerle, life coach. Non è proprio una novità. Adesso è adesso, è vero. Intanto, però, tu al mare non ci stai andando. E forse questo è il pregio e il difetto maggiore del film: alla fine, al mare non ti ci porta mai.

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