Filosofia antica

“Conosci te stesso”: viaggio alle origini dell’anima

Dalla massima delfica alla psyché platonica: il pensiero greco e la nascita dell’antropologia filosofica

  • Oggi, 14:00
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Dante e Virgilio di fronte alle anime di Ulisse e Diomede, raffigurate in basso a sinistra come due fiammelle (Inferno, XXVI)

  • Gustave Doré
Di: Elia Bosco 

γνῶθι σεαυτόν, gnōthi seautón, Conosci te stesso. Questa la celebre frase iscritta sul fronte del Tempio di Apollo a Delfi, in Grecia. Una massima che ha ispirato uomini e donne per millenni, il primo gradino di un lungo percorso che permetteva di avvicinarsi al concetto aristotelico della felicità, racchiuso nella parola eudaimonia: la buona realizzazione del proprio “demone”, del proprio carattere, della propria virtù (tutte valenze che può assumere la densissima parola greca “daimon”). Una frase che delinea in realtà l’intero programma di una disciplina: l’antropologia.

È pur vero che l’antropologia assume forme diverse a seconda della prospettiva di indagine che prende in considerazione: antropologia culturale (lo studio delle culture umane), antropologia biologica (lo studio dell’evoluzione umana), antropologia sociale (lo studio delle strutture e dei sistemi sociali), antropologia linguistica (lo studio del linguaggio umano) e altre ancora. Tutti ambiti che sono accomunati da un particolare approccio: concentrarsi sullo studio dell’essere umano sotto diverse prospettive e contesti.

Tra le diverse forme della disciplina dell’antropologia, quella più antica è sicuramente l’antropologia filosofica, ossia l’indagine che riguarda cosa sia l’essere umano in quanto tale. Una questione che ha interessato l’umanità fin dai primordi della civiltà e che tutt’ora continua a porre interrogativi circa la nostra reale natura.

La questione centrale nello studio della natura umana è data da due elementi che propriamente ci definiscono: il corpo e l’anima. La parola “anima” ha infatti ricoperto diversi significati nel corso della storia: ciò che permette la vita e il movimento, ciò che governa le funzioni psicologiche, ciò che definisce il valore morale dell’individuo, ciò che dopo la morte compie un viaggio e raggiunge la sfera dell’immortalità, ciò che favorisce l’incontro con il divino e, ancora, ciò che definisce il nostro io.

La psyché del mondo classico

A partire dal VII secolo a.C., la cultura greca ha introdotto il concetto di psyché (ψυχή, “soffio vitale”), una delle nozioni più importanti dell’intero mondo classico. L’idea che accompagna fin dal principio il termine psyché è il riferimento ad un certo principio di vita. La psyché greca, nel corso dei secoli, assume la valenza di ciò che custodisce i sentimenti più profondi, ciò che permette la riflessione, ciò che custodisce virtù come coraggio e giustizia e ciò che sopravvive alla morte del corpo.

Prendiamo come esempio i poemi omerici, in cui abbiamo i primi usi del termine psyché. In particolare, concentriamoci sul luogo dell’Odissea in cui Ulisse fa visita nell’Oltretomba. In quei versi, l’eroe greco non incontra i corpi dei suoi amici e dei suoi cari, bensì la loro psyché. Omero ne parla come fossero dei simulacri, delle ombre di ciò che di grandioso questi eroi e queste eroine furono in vita. Dunque, la valenza che Omero dà a questo concetto sembra riassumersi come qualcosa che sopravvive alla morte del corpo per poi assumere una forma depotenziata nell’aldilà, che fa intuire la grandezza di chi furono i personaggi ma che al contempo non le rende completamente giustizia. Nessuna traccia della valenza psicologica, morale e personale del concetto di psyché.

Lo sviluppo più significativo del termine lo si riscontra con Platone, in particolare nell’opera Fedone, anche se le riflessioni su questo tema sono riscontrabili anche in altri importanti dialoghi. Facendo propria l’eredità di Socrate, Platone arricchisce il concetto di psyché con elementi che non erano riscontrabili nei poemi omerici. Nello specifico, Platone considera in primis l’anima come principio di vita e di movimento, per poi attribuirle altre funzioni, tra cui l’immortalità, la razionalità e la divinità (l’idea che la psyché sia la parte divina che abita l’essere umano). La concezione platonica dunque divide nettamente la psyché, la parte spirituale dell’essere umano, dalla parte materiale, ossia il corpo. Nel Fedone questa concezione viene argomentata a fondo: nella narrazione della morte di Socrate, Platone insiste sul fatto che il suo maestro ribadì come attraverso la morte l’anima si separi dalla prigionia corporea per accedere al mondo superiore delle idee. L’argomentazione sull’immortalità dell’anima è così delineata: se il corpo è vivo in virtù dell’anima, allora l’anima non potrà mai non essere viva e, per questo, non potrà mai morire.

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Platone (428-348 a.C.)

L’anima nel Medioevo

In epoca medievale, fu Tommaso d’Aquino a riflettere in modo sostanziale sulla questione dell’anima. L’opera principale in cui Tommaso racchiude le sue ricerche sulla natura dell’anima umana è la Summa theologiae, composta tra il 1265 e il 1273. Il primo ragionamento sull’esistenza dell’anima Tommaso lo affronta chiedendosi se l’anima sia un corpo. Secondo il teologo, l’anima è il primo principio di vita in quanto permette l’esistenza delle cose: se un corpo è vivo, allora è vivo il virtù della sua anima. Il corpo stesso, per definizione aristotelica, non può essere ciò che rende vivo qualcosa perché esso ha bisogno di un motore che metta in moto l’intero ingranaggio, poiché la materia ha sempre in sé una forma. Per questo motivo, la conclusione che Tommaso trae è che l’anima non può essere un corpo, ma qualcosa di immateriale, la forma che permette al corpo di animarsi. La dottrina di Tommaso si sposa benissimo con la concezione cristiana dell’anima: un luogo che permette l’accesso all’interiorità e dunque il contatto con il divino; essa, a dipendenza del comportamento dell’essere umano, può purificarsi o corrompersi per poi essere giudicata nel passaggio verso l’aldilà. Nel momento del Giudizio Universale, i corpi e le anime torneranno ad unirsi, compiendo così il loro ultimo destino.

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Tommaso D'Aquino (1225-1274)

Dall’anima alla mente

È solo con Cartesio che il sistema classico-medievale dell’antropologia subirà un netto cambio di paradigma. Il filosofo francese considera il pensiero a lui precedente un insieme di opinioni che vengono presentate come fossero vere, ma che sono ben distanti dall’essere propriamente delle verità. Da questo ragionamento, nell’opera Meditazioni metafisiche (1641), conierà la massima Ego cogito, ergo sum, sive existo (Io penso, quindi sono, perciò esisto) che pone come punto di partenza dell’indagine filosofica, e dunque prima ineludibile certezza, il pensiero razionale.

Per tornare alla domanda che ha interrogato i filosofi dall’Antichità ad oggi, “cos’è l’essere umano”, Cartesio intuisce che ciò che più contraddistingue l’umanità rispetto agli altri esseri è la mente, sede principale delle attività del pensiero. Pensare, da questo punto di vista, significa dubitare, comprendere, affermare, negare, volere, immaginare. Dunque, quello che per gli antichi era chiamato psyché, dai medievali animae, diventa per Cartesio la mente. Il ragionamento del filosofo francese non si conclude qui, poiché attribuisce la creazione della mente a Dio, che rappresenta la perfezione e la bontà assoluta. Ogni pensiero veramente razionale, non corrotto da altre forze, è per sua natura orientato verso il bene assoluto. Ma la mente, per esistere, ha bisogno di un luogo. Ecco che Cartesio abbraccia l’idea di un dualismo che definisce l’umanità: la mente (cosciente, libera) e il corpo (incosciente, determinato).

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René Descartes (1596-1650)

Oggi, l’anima esiste?

Dopo Cartesio, sono stati moltissimi i filosofi che si sono interrogati sulla questione. Hobbes, Spinoza, Berkeley, Locke, Malebranche, Leibniz sono solo alcuni dei nomi più celebri che hanno tentato di dare il loro contributo nella ricerca sull’essenza dell’essere umano. Si sono affacciati, tra Otto e Novecento, studi sempre più governati dalla tecnica, che hanno cominciato a considerare l’essere umano come un mero insieme di ingranaggi, forze ed elettricità che permettono il funzionamento di tutte le nostre facoltà. Definito così, non c’è grande differenza teorica tra un cervello umano e un’intelligenza artificiale. In ogni caso, quando le azioni umane sembrano non essere governate dalla razionalità, ma essere invece frutto dell’intuito, del sentimento e di tutte le categorie non iscrivibili al raziocinio, ecco che l’anima trova un posto anche in una contemporaneità che fa di tutto per materializzarsi il più possibile, lasciando sempre meno spazio alla sfera spirituale e inesplicabile dell’esistenza.

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