Gli orientamenti storiografici di qualsivoglia provenienza concordano, tutti, sul fatto che l’unica rivoluzione vincente del Novecento sia stata il movimento di liberazione delle donne. Quella che ha lasciato più frutti o sedimentato più problemi, a seconda dei punti di vista, ma certo la rivoluzione più riuscita.
Eppure da ormai più di un decennio lo stesso termine femminismo, meglio sarebbe dire femminismi, non è quasi più nominato. Se non come vaga excusatio del tipo «non sono femminista ma…».
L’interesse, nel dibattito pubblico e nell’approfondimento culturale, è rivolto, piuttosto, per attaccarlo o difenderlo, al così detto gender e alla sua fluidità. Un termine e un fenomeno dai significati molteplici e complicati. Spesso confuso e sovrapposto con sesso, come fossero la stessa cosa.
Così nello scontro politico le rivendicazioni femministe sono per lo più confluite, quando non si sono trasformate e, quasi dissolte, in quelle dei diritti prevalentemente nell’ambito dell’LGBTQA+.
Più in generale, poi, la politica veicola un crescente aumento di richieste di diritti, una sorta di “dirittismo”, mosso spesso da un individualismo soggettivo che trasforma il proprio desiderio con la richiesta di un diritto. Un diritto che spesso confligge con un altro. Troppo spesso con quello della donna. Cancellata nella sua stessa identità.
Questo avviene a partire dal linguaggio - di cui abbiamo imparato a capire l’importanza significante - a cui giustamente oggi si chiede di rispecchiare l’appartenenza sessuale, con un ossequio estenuato delle diverse desinenza. E si arriva però al punto di definire la donna «persona con utero» o «persona mestruante» e via declinando fino alla cancellazione della sua primaria identità, quella che si fonda sul dato biologico, di natura. Quella del corpo, e della sua capacità generativa. Oggi potenzialmente sostituibile dalle macchine, o da processi sempre più sofisticati di «transizione».
Ma poi fino a che punto è davvero possibile? Forse, con un utero artificiale. Che però non basta per procreare.
Termini e questioni complicatissime, rispetto alle quali il femminismo sembra sparito dall’orizzonte, soprattutto, per le giovani donne. Perché questo oblio? Relegato tra gli arnesi obsoleti e ormai inservibili della generazione delle madri, il femminismo sembra come qualcosa di primitivo, cui, nelle ragazze più generose, portare, al massimo, rispetto e ossequio?
Eppure novità importanti si muovono anche nella teoria femminista. All’interno della filosofia politica, si è posta, sempre di più la questione della vulnerabilità di persone o gruppi oppressi che vivono situazioni di grande disagio e sfruttamento. Questione che oggi viene definita strutturalmente intersezionale.
Non che anche il primo femminismo, quello che nasce in ambito liberale, o quello più recente, il femminismo della differenza degli anni settanta del secolo scorso, non si siano posti il problema di come la differenza tra uomo e donna - originaria e “ontologica” - della condizione di subalternità femminile non cambi e di molto, se vissuta da una donna bianca e borghese rispetto ad una donna nera sfruttata e asservita materialmente. Ma oggi il come fare interagire i diversi piani di oppressione è posto al centro.
A portare chiarezza su queste domande viene in soccorso un libro a due voci, di Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo, Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa), Frecce, Mondadori 2024. A sostegno di una tesi molto netta, a favore del «femminismo della differenza», questo libro si rivolge alle ragazze, senza toni «maternalistici». Con mirabile onestà, chiarezza e grande spessore propone una ricostruzione storica, filosofica e politica della donna dalla civiltà arcaica ad oggi, nel suo rapporto con l’altro sesso.
Perché la tesi di fondo è che i sessi siano stati e restino due, quello del maschio e quello della femmina. Diversamente dagli orientamenti sessuali che possono essere i più diversi.
Il titolo vuole polemizzare esplicitamente con la nota affermazione di Simone de Beauvoir che nel suo famoso Le Deuxième Sexe uscito nel 1949 per Gallimard scriveva che “donna non si nasce ma si diventa”. L’autrice, esponente fondamentale della cultura emancipazionista del Novecento, alla domanda cosa fosse una donna, rispondeva che a definirla non è la biologia, (il materno) e la sua psicologia (il suo destino di subalternità o complementarietà all’uomo). Insomma che la libertà e la “verità” di se stesse «sta nella cultura e non nella natura».
Nella civiltà arcaica, pensiamo al culto della Grande Madre nelle diverse espressioni, la Madre Terra, Rea, Gea, Gaia, ecc. avviene una totale sintonia tra fecondità femminile e natura. Società matriarcali, segnate da iconografie di piccole statue di donne gravide, spandevano armonia vitale a garanzia della prosecuzione della specie.
Seguirà quella che, sempre nel dibattitto antropologico ottocentesco, verrà definito patriarcato (che poco ha a che fare con la definizione della struttura socio-simbolica dei nostri tempi) segnata dalla supremazia degli uomini sulle donne (e tra i maschi per la sottomissione delle donne stesse). Società patriarcali fondate sul potere belligerante. Mentre le donne, diversamente dagli uomini, sono un sesso meramente relegato alla sfera bassa della natura, quella degli animali, cioè la funzione del generare. Il sesso che non genera e sviluppa, invece, le qualità del pensiero e del linguaggio, che si svincola dalla animalità è quello dell’uomo. Un animale razionale, diceva Aristotele: l’uomo è un vivente (zoon ) dotato di logos.
E da qui la giustificazione che sia l’uomo a rappresentare entrambi i sessi, nella storia dell’umanità, fino ai tempi recenti.
Un modello di superiorità maschie che motiverà le stesse lotte delle donne per conquistare il piano di parità con l’uomo. Quelle che dall’Ottocento, fino ai nostri giorni le sproneranno per ottenere il sacrosanto obiettivo dell’emancipazione.
Fino a quando le donne - pensiamo alla Rivoluzione francese e all’universalismo astratto dell’uguaglianza, denunciato da eroine come Olympia de Gouges - non capiranno che per loro la parità con l’uomo è necessaria ma non sufficiente. Quando scopriranno cioè che la loro differenza esiste, è reale come la loro biologia generativa. Ma che non è affatto sinonimo di inferiorità. E che, anzi è la loro forza. Come bene ha detto il femminismo della differenza. Una differenza che va sottratta ad una lettura “negativa” quella, comunque la si voglia definire, misogina, patriarcale, maschilista, conservatrice ecc. ecc. Che vede, nello specifico femminile, così si sarebbe detto un tempo, una diminutio, che, al massimo poteva riscattarsi consentendo alle donne di essere uguali agli uomini.
Vorrei concludere con una famosa ed esemplare sentenza del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, il quale - come commentano le autrici - scrive nella prima metà dell’Ottocento ma che ha una larga influenza sugli sviluppi del pensiero contemporaneo: «Le donne sono destinate unicamente alla propagazione del genere umano e in ciò si esaurisce il loro compito esse prendono a cuore assai più gli interessi della specie che quelli dell’individuo… Le donne sono sexus sequior, il secondo sesso che, da ogni punto di vista, è inferiore al sesso maschile».
Con questo si sono dovuti misurare i caposaldi dell’emancipazionismo e del femminismo dall’Ottocento alla fine del Novecento.
Susana Baca
Cuentos de Latinas 31.07.2025, 14:30
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