James Joyce e Giambattista Vico, Marcel Proust e Henri Bergson, William Shakespeare e Michel de Montaigne, Herman Hesse e Friedrich Nietzsche, Ayn Rand e Aristotele, Samuel Beckett e Theodor Adorno, Iris Murdoch e Platone… la lista non finisce qui. Di coppie così, formate da un filosofo e da uno scrittore assimilabili per temi, sensibilità, stili di scrittura e idee, dove spesso l’influenza dell’uno sull’altro è reciproca, se ne contano a bizzeffe. Ma che relazione c’è tra filosofi e scrittori, e più in generale tra filosofia e letteratura?
Iniziamo con il dire che la letteratura può essere, ed è, oggetto di studio da parte dei filosofi. C’è infatti un’intera branca dell’estetica che porta il nome di “filosofia della letteratura”, tra i cui ranghi troviamo autori come Gregory Currie, Peter Lamarque, Kendall Walton, Philip Kitcher, Noël Carroll e molti altri ancora. La filosofia della letteratura si occupa di tutte quelle questioni teoriche che la letteratura solleva senza però risolvere. Prendiamo il detective Elia Contini, protagonista di numerosi libri dello scrittore ticinese Andrea Fazioli. Che tipo di entità è Elia Contini? Ovviamente non si tratta di un uomo in carne e ossa, anzi è un’entità immaginaria, fittizia. Ma che cos’è un’entità fittizia? È un’entità mentale, che esiste nella nostra testa un po’ come un pensiero? O è piuttosto un’entità astratta come un numero o una forma geometrica? E poi, Elia Contini esisteva prima che venisse immaginato dal suo inventore? O, invece, Andrea Fazioli ha, per così dire, creato qualcosa dal nulla? C’è poi il problema della verità. Sappiamo ad esempio che Elia Contini “vive” a Massagno. Ma, ovviamente, ciò non è vero: infatti, non esiste nessun residente nel comune di Massagno che si chiama Elia Contini. E dunque come facciamo a sapere qualcosa che è falso? Bisogna forse distinguere la nozione di verità che si riferisce al mondo reale da quella relativa al mondo immaginario dove vive Elia Contini? Questi sono solo alcuni esempi di domande di cui si occupa la filosofia della letteratura.
Alphaville
Alphaville 21.11.2022, 11:30
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Ma la relazione tra filosofia e letteratura non si risolve semplicemente nella filosofia della letteratura. C’è qualcosa di più profondo, di più importante, che lega, da una parte, una disciplina in continuità con la scienza e, dall’altra, una forma d’arte che fa del linguaggio il suo mezzo. Secondo il filosofo americano Philip Kitcher, esistono tre possibili livelli di “coinvolgimento filosofico” all’interno di un testo letterario (Philip Kitcher, Deaths in Venice, Columbia University Press, 2013). A un primo livello, quello più superficiale, il riferimento a un’idea filosofica o l’allusione a un filosofo sono solo una maniera di arricchire un testo letterario, come accade nel romanzo Tempi difficili di Charles Dickens, in cui i figli di Mr. Gradgrind, uno dei personaggi principali, si chiamano “Adam Smith” e “Malthus”. Qui, il rimando ai due teorici dell’utilitarismo ha una funzione di arricchimento, ma non costituisce un elemento essenziale dell’opera.
A un secondo livello, quello intermedio, la filosofia entra all’interno di un testo letterario in modo essenziale, costitutivo. C’è una poesia di Giovanni Orelli intitolata Il problema del sòrite nella quale viene spiegato il celebre paradosso escogitato da Eubulide di Mileto nel IV secolo a.C.: partendo da un granello di sabbia e aggiungendo un solo granello di sabbia alla volta, a che punto del processo possiamo dire di aver ottenuto un mucchio di sabbia? Il poeta ticinese, in realtà, usa la filosofia per introdurre una riflessione sul concetto di collettività, ma il riferimento filosofico è, in questo caso, l’elemento portante. È sì un pretesto, ma di sicuro non una semplice decorazione.
Infine, al terzo livello, è la letteratura a venire usata, per così dire, dalla filosofia. Fin dall’antichità, infatti, scrittori e scrittrici si sono serviti di generi letterari come il romanzo, il racconto o la poesia per esplorare una questione filosofica. Gli esempi abbondano. Pensiamo alle Operette morali di Leopardi, al Diario del seduttore di Kierkegaard, a L’uomo senza qualità di Musil, a Palomar di Calvino, ai racconti di Borges, a certe pagine di Gadda o di Levi, a molte delle opere di David Foster Wallace, ai romanzi di Iris Murdoch. Per definire questi casi, i critici parlano spesso di romanzi filosofici, di philosophical fiction, o di novel of ideas. Ci sono poi testi tradizionalmente considerati di filosofia che potrebbero, però, essere ricollocati sugli scaffali della letteratura: dai dialoghi di Platone al Candide di Voltaire, da Così parlo Zarathustra di Nietzsche al De Magistro di Sant’Agostino.
Il già citato Philip Kitcher ritiene che la letteratura riconducibile a quest’ultimo livello debba essere considerata al pari della filosofia. Certo, nelle Operette Morali non troviamo delle vere e proprie argomentazioni. I racconti di Borges non contengono premesse, deduzioni, conclusioni. Nei suoi libri, Iris Murdoch non ha sostenuto e articolato tesi formulate in un linguaggio preciso e accademico. Tutti questi autori e autrici farebbero comunque filosofia, non attraverso l’argomentazione, ma mostrando, questo è il concetto chiave secondo Kitcher. Vengono descritti degli scenari, delle situazioni, delle relazioni, dei personaggi, e il tutto viene accompagnato da un sotteso invito al lettore a considerarne le implicazioni filosofiche. Ci troviamo quindi di fronte all’idea di una letteratura come filosofia.
"Omaggio a Giacomo Leopardi"
Speciali 16.10.2018, 17:00
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La tesi di Kitcher è senz’altro controversa e ha incontrato resistenza sia da parte dei filosofi che da parte degli studiosi di letteratura. Il problema principale che viene sollevato è molto semplice: mentre la letteratura è spesso emozionante, commovente, suggestiva, la filosofia deve essere, come la scienza, fredda, controllata, insensibile, spassionata. In conclusione, sebbene letteratura e filosofia si tocchino, e in certi casi addirittura si sovrappongano, ci sono ancora degli elementi e delle sfumature, soprattutto legati alla sfera delle emozioni, a quella che Musil chiamava “la sfera del non-razioide”, che ci permettono, anche nei casi estremi, di fare una distinzione.