Il 4 dicembre 1975 moriva Hannah Arendt. Cinquant’anni dopo, la sua opera rimane un punto di riferimento imprescindibile per la teoria politica e per la filosofia del Novecento. Arendt non costruì mai sistemi chiusi: il suo pensiero fu sempre un esercizio di comprensione delle fratture storiche, dalla Shoah ai totalitarismi, dalla crisi della democrazia alla fragilità della libertà.
La sua nozione di “banalità del male”, elaborata nel reportage sul processo Eichmann, rappresenta una svolta concettuale. Eichmann non appariva come incarnazione del male radicale, ma come un funzionario mediocre, incapace di pensare. Da qui la celebre intuizione: «La triste verità è che molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai ad essere buone o cattive». Il male, dunque, non è abissale, ma superficiale: si diffonde quando l’individuo abdica al giudizio critico e si rifugia nell’obbedienza.
L’eredità di Hannah Arendt
Alphaville 04.12.2025, 12:05
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Già ne Le origini del totalitarismo Arendt aveva indagato la “radicalità del male”, ma l’esperienza di Auschwitz la costrinse a rivedere quella prospettiva. «Il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e non possiede né profondità né dimensione demoniaca. Solo il bene è profondo e può essere radicale». È questa la sua lezione più destabilizzante: il male non ha radici, non ha spessore, ma può devastare il mondo intero proprio grazie alla sua superficialità.
Oggi, a cinquant’anni dalla sua morte, la categoria della banalità del male si rivela di straordinaria attualità. In un mondo dominato da apparati tecnologici e burocratici, la deresponsabilizzazione si riproduce sotto nuove forme: l’algoritmo che decide, la piattaforma che orienta, la catena di comando che assorbe ogni responsabilità individuale. La tentazione di rifugiarsi nell’alibi dell’obbedienza, di ridursi a ingranaggi di un sistema impersonale, è più forte che mai. Arendt ci ricorda che il male non si manifesta solo nei grandi eventi storici, ma nelle scelte quotidiane di chi rinuncia alla coscienza critica (e la politica attuale è zeppa di esempi). La sua lezione è dunque un invito urgente a pensare, a giudicare, a dire no, anche quando la pressione sociale e istituzionale spinge verso la conformità.
La conseguenza politica è decisiva. Se il male banale si diffonde attraverso l’obbedienza cieca, l’antidoto non può che essere la responsabilità individuale. La democrazia, per Arendt, non è mai garantita: vive solo se i cittadini esercitano il giudizio, se hanno il coraggio di disobbedire a ordini ingiusti, se rifiutano di ridursi a ingranaggi. La politica autentica è inseparabile dalla morale, e la libertà si fonda sulla capacità di pensare.
Non a caso Hans Jonas, suo maestro e amico, scrisse di lei: «Hannah Arendt ha avuto il coraggio di pensare senza compromessi, e di dire ciò che il mondo non voleva sentire». È un riconoscimento che coglie l’essenza della sua opera: un pensiero che non cerca consenso, ma verità, e che rimane vivo solo se ci mette in difficoltà.
A cinquant’anni dalla sua morte, Arendt continua a interrogarci. La banalità del male non è un concetto da museo, ma un avvertimento sempre attuale: il male si insinua ogni volta che scegliamo di non scegliere, ogni volta che ci rifugiamo nell’alibi dell’obbedienza. Ricordarla significa assumere il suo invito a pensare come compito politico. La responsabilità individuale è l’unico antidoto, ed è la eredità più preziosa della pensatrice tedesca.
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