La notizia dell’inserimento di Papa Leone nella lista dei best dressed di Vogue America ha fatto rapidamente il giro dei media, non tanto per il riconoscimento in sé quanto per il modo in cui la rivista ha costruito la sua narrazione. Vogue presenta il pontefice come il protagonista di una svolta estetica radicale, quasi un rinnovamento scenografico rispetto al suo predecessore. Secondo la rivista, Leone avrebbe «rotto con i gusti umili» di Francesco, scegliendo paramenti più preziosi, mantelle di raso, stole ricamate e perfino un nuovo rapporto con il mondo del cinema, testimoniato dalle visite di celebri attrici in Vaticano. È una storia brillante, confezionata con la consueta abilità di Vogue nel trasformare ogni dettaglio in un racconto glamour. Tuttavia, seppure la narrazione abbia dei punti di verità, il rischio di scivolare in una versione romanzata resta.
Perché la verità appare meno scintillante. L’abbigliamento papale non è un guardaroba da star, né un campo di sperimentazione stilistica. L’abito bianco, cuore dell’iconografia pontificia, è rimasto sostanzialmente identico. Non è un capo di moda, ma un segno codificato, un simbolo che non può essere reinterpretato a piacimento. Presentarlo come una «rottura» è un artificio narrativo, non un dato oggettivo. Anche i paramenti liturgici citati da Vogue non rappresentano di per sé una novità: fanno parte del patrimonio della Chiesa, vengono utilizzati da decenni e non dipendono dalla personalità del pontefice. È vero che Francesco al contrario di Leone si presentò la prima volta alla loggia centrale della basilica vaticana senza la mozzetta rossa ma questo non significa che Leone, scegliendo di indossarla, abbia compiuto una «svolta estetica» o un gesto di rottura in senso opposto. La mozzetta non è un simbolo politico né un manifesto di stile, è un paramento cerimoniale previsto dal protocollo, che alcuni papi hanno usato e altri no, senza che questo definisse per forza di cose un cambio di linea o di identità del pontificato.
L’unico elemento in cui si può parlare davvero di scelta personale riguarda le scarpe. Qui sì, emergono differenze, materiali, colori, finiture. È comprensibile che una rivista di moda parli di questo dettaglio, perché in effetti consente una lettura estetica individuale. Ma trasformare una variazione nelle calzature in un segnale di svolta epocale è un salto narrativo non del tutto corrispondente al vero. Non va dimenticato, infatti, che le scarpe del predecessore di Leone erano ortopediche per necessità, non per scelta stilistica.
Quanto al «nuovo rapporto con il cinema», anche qui la narrazione va un po’ oltre la realtà. Celebrità e artisti sono stati ricevuti in Vaticano da sempre, e non certo in modo sporadico. Attribuire a queste visite un significato simbolico marcato non regge all’esame dei fatti. È un modo elegante per suggerire modernità, mondanità, apertura culturale, ma si tratta più di un effetto retorico che di un reale cambio di paradigma.
In definitiva, l’inserimento di Papa Leone nella lista dei best dressed dice molto più su Vogue che sul pontefice. La rivista ha bisogno di contrasti, di personaggi che incarnino un prima e un dopo, di storie che brillano. Ma quando si parla di abiti papali, la continuità pesa infinitamente più della rottura.
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