«Una sola sua frase basta a farmi ritrovare la strada, le scarpe, il cammino».
In poche parole si potrebbe riassumere così l’esperienza di molti lettori e ascoltatori di Maurice Zundel (1897 -1975). Teologo, poeta, mistico di Neuchâtel, Zundel è stato un uomo fuori dal suo tempo e, forse proprio per questo, profondamente in anticipo. Al centro del suo pensiero c’è una visione sorprendente della coscienza. Non come spazio morale fatto di doveri e prescrizioni, ma come luogo di accoglienza, intimità viva in cui Dio non si impone mai. Zundel parla di un Dio fragile, non perché manchi di potenza, ma perché sceglie di dipendere dalla libertà dell’uomo. Dio, per lui, resta in qualche modo “inerme, inattivo” se non viene accolto. La sua presenza non invade: attende.
Da qui nasce una responsabilità radicale della coscienza umana. La fede non è adesione esteriore a un sistema, ma esperienza interiore che si gioca nella libertà. Per Zundel, Dio non è un oggetto di pensiero, ma una presenza che chiede spazio, silenzio, ascolto. «Non parliamo di Dio, viviamolo», ripeteva. La coscienza diventa così il luogo dove l’uomo smette di possedere e impara a ricevere.
Questa intuizione si radica in una vita segnata da aperture precoci e da ferite profonde. Cresciuto in un contesto protestante, Zundel vive l’ecumenismo non come teoria, ma come esperienza concreta: la comunione nasce dalla profondità della relazione con Dio, non dalle discussioni ideologiche. «Se si va abbastanza in fondo al cuore - pensava - si può incontrare chiunque».
La sua spiritualità è attraversata dal silenzio e dallo stupore. La coscienza si risveglia non per sforzo di volontà, ma per meraviglia: davanti alle Alpi, a un’opera d’arte, a un volto umano. La bellezza è una via privilegiata verso Dio, perché apre l’uomo senza costringerlo. Anche la liturgia, celebrata spesso senza parole superflue, diventa spazio di interiorità pura. Ma questa profondità non è mai evasione. La coscienza, per Zundel, è inseparabile dalla dignità dell’altro. Dare tutto a chi chiede non è eroismo, ma rispetto. La povertà non è mancanza, è il linguaggio dell’amore che si fa dono. Solo chi possiede uno spazio interiore sicuro può diventare veramente giusto e generoso.
Ostacolato, frainteso, mandato in esilio, Zundel resta fedele alla sua intuizione: Dio non domina, si affida. Una fedeltà che gli è costata solitudine, silenzio forzato, incomprensione anche all’interno della Chiesa, ed è forse da questa fedeltà ferita attraversata senza risentimento, che nasce la forza ancora sorprendentemente attuale del suo pensiero. In un mondo rumoroso e frammentato e affamato di certezze immediate, la sua spiritualità della coscienza invita a rallentare, ad ascoltare, a fare silenzio, a sottrarsi alla logica del possesso e del controllo. Invita a riconoscere che la verità non si conquista, ma si accoglie; che Dio non occupa spazio, ma lo crea. Perché è lì, nel punto più libero e fragile dell’uomo, là dove la coscienza diventa ascolto e responsabilità, che Dio può finalmente abitare.







