Non c’è niente come il linguaggio, sosteneva uno scettico utopista come Rilke, per snaturare le parole e privarle del loro autentico significato. E’ un paradosso, ma come molti paradossi esprime una sostanziale verità: tra le parole e la “realtà” che dovrebbe corrispondere al loro significato -ha scritto lo stesso Rilke nell’ottava delle “Elegie duinesi”- c’è costantemente il “mondo”. E il “mondo”, o comunque lo si voglia definire, fatto di proustiane intermittenze del cuore, è sempre negazione, sottrazione, tempo che passiamo ma soprattutto tempo che ci passa, ci trasforma e deforma. Il “mondo”, insomma, è “morte”, nelle sue varie forme e declinazioni.
Cosa diceva, del resto, un ammiratore di Proust come Ennio Flaiano? Già la vita è piuttosto volgare, nella migliore delle ipotesi volgaruccia, e per giunta viviamo in tempi davvero prosaici, non solo perché Albertine è “scomparsa”, come recita il titolo del sesto e penultimo pannello della “Recherche”, ma soprattutto perché a nessuno viene più in mente di andare a cercarla. La morale della favola, almeno all’apparenza, è molto semplice: le parole sono importanti, come ricordava giustamente Nanni Moretti in una celeberrima scena del film “Palombella rossa”. Ma non solo: le parole sono importanti anche e soprattutto quando subiscono colpevoli mutazioni semantiche, col significato originario che viene snaturato e rimodellato per leggerezza e ignoranza, ma a volte anche per scopi strumentali.
La consistenza delle parole, la loro pesantezza di pietre (secondo la felice definizione di Carlo Levi), ne fa quindi il principale strumento di quella che Carlo Michelstaedter, opponendola alla “persuasione” e cioè al pieno possesso della propria vita, aveva definito la “rettorica”, vale a dire tutto l’insieme di finzioni, menzogne, ipocrisie, inganni autoinganni e sovrastrutture (la cosiddetta società o “comunella dei malvagi”, secondo le parole dello stesso Michelstaedter) che impedisce di chiamare le cose col loro nome e rende molto scomodo e impervio, per non dire impossibile, l’accesso alla loro più intima verità.
Esattamente come il dizionario dei luoghi comuni e delle idee ricevute di Gustave Flaubert, oppure il catalogo di Leporello, anche il novero delle parole snaturate e inflazionate è molto ampio. Una parola ormai lontanissima dal suo significato originario è ad esempio la parola “utopia”, che deriva dal greco, significa letteralmente “nessun luogo” e sta ad indicare la non accettazione dell’esistente, la tensione faustiana e la proiezione immaginativa nei confronti di un “altrove” diverso e migliore. C’è da notare, tra l’altro, come faceva osservare Paul Valéry, che anche le parole “altrove” e “oltre” risultano tra le più svalutate e inflazionate. Il che è tutt’altro che casuale, perché nel cosiddetto gergo corrente tutto tende alla banalizzazione e alla semplificazione.
Nel gergo corrente, infatti, ma tutto sommato anche in senso più ampio, “utopia” e “utopico” indicano qualcosa di opposto al “positif du monde”, alla concretezza delle cose reali tangibili e misurabili. Qualcosa di fantasioso, quindi, campato per aria, differito o perfino rimosso in una vaga e indistinta lontananza spazio-temporale, qualcosa di irraggiungibile e irrealizzabile, sempre connotato in maniera fortemente negativa e con un tono quasi di scherno: l’utopia come pio desiderio e fuga dalla realtà. Si tratta, ovviamente, di un grandissimo (e gravissimo) errore.
In primo luogo, perché “utopia” ha una “sorella maggiore” che si chiama “verità senza errore”, come ricordavano Augusto Daolio e i Nomadi, e quindi la “fuga dalla realtà” può anche consistere nella ricerca di dimensioni date troppo spesso per acquisite oppure oggettivamente negate quali la libertà, l’indipendenza e l’autodeterminazione. E poi perché si tende a trascurare l’originaria e profondissima valenza semantica della parola, perché si dimentica che l’utopia -malgrado sia stata quasi sempre sconfessata, nelle sue numerose variazioni e declinazioni, dal concreto divenire storico (il che è un mero dato di fatto, non un argomento a favore del divenire storico)- rimane pur sempre l’unica espressione di una vita di progetto e speranza, che in ultima analisi è la sola vita degna di essere vissuta.
L'isola mai trovata
Storia 02.05.2016, 13:35
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Lo aveva capito Giacomo Leopardi in un celebre passo dello “Zibaldone”, quando ha scritto che il pensiero utopico con le sue proiezioni immaginative rimane «l’unica fonte della felicità umana», perché a dispetto di tutti gli ottimismi dell’umanesimo e del positivismo (oggi ridotti in larga parte a losco e volgare ottimismo aziendale) «nulla si sa e tutto si immagina» e di conseguenza la vita vera, ammesso che sia data, può esistere più nell’utopia che nella realtà e nel presente. Soprattutto quando la realtà e il presente fanno paura, sono difficili da accettare e da vivere e proiettano sul futuro ombre sempre più cupe e minacciose.
Ci sono tante forme di utopia, ci sono tanti “nessun luogo” e tanti modi di non accettare l’esistente come unico orizzonte possibile e immaginabile (l’autentico peccato capitale, secondo Bertolt Brecht). Ci sono state le monumentali utopie politiche, gli Stati ideali, da Platone a Tommaso Moro, da Campanella a Bacone fino alle grandi ideologie umanitarie (e al loro tragico pervertimento), c’è stata l’utopia della conoscenza non razionale, che ha attraversato come un torrente carsico la cultura occidentale degli ultimi cinquecento anni ed è uscita sconfitta, al punto che oggi è pressoché dimenticata.
Eppure è stata una splendida utopia con straordinari interpreti: da Novalis e Eichendorff con l’ideale del “fiore azzurro” a Mörike col paese immaginario di “Orplid”, da Hölderlin al Rimbaud di “Je est un autre”, dal Goethe degli studi naturalistici e della ricerca della “natura vivente”, del “tipo anatomico”, del “fenomeno primitivo” e della “pianta originaria” (forse la ricerca “utopica” per eccellenza) al già ricordato Leopardi degli “stati d’affezione”, dal Baudelaire di “Corrispondenze” allo Strindberg di “Inferno”, del “Diario occulto” e del teatro onirico (solo per citare alcuni nomi, ma la lista è lunga e arriva fino a Kafka, il già ricordato Rilke, Artaud e le avanguardie del Novecento): tutti fermamente (ingenuamente?) convinti che la fantasticazione, intesa come approccio “altro” alla realtà, avrebbe permesso di sanare le contraddizioni della storia, pervenendo infine alla sintesi di natura e spirito. Cosa dice il Faust di Goethe? «Forma e trasformazione, eterno gioco dell’eterno senso». Anche la cosiddetta “Weimarer Klassik”, il “classicismo di Weimar” dello stesso Goethe e di Schiller, che mirava all’“educazione del genere umano” nel segno della sintesi di etica ed estetica e in virtù di un’arte civilizzatrice, è stata una meravigliosa quanto fallimentare utopia.
E poi ci sono state altre utopie più circoscritte, ma non per questo meno importanti e significative. Utopie minori, se così le si può definire, che tuttavia sono particolarmente vicine al nostro attuale sentire, soprattutto perché si sono sviluppate in momenti di crisi e incertezza. Nei primissimi anni del Novecento, ad esempio, in un periodo di forte crisi dei valori tradizionali, quando ormai appariva chiaro che la vecchia Europa, con tutto il suo carico e il suo “fardello” nietzscheano di storia, tradizione e “realtà”, si sarebbe suicidata gettandosi nel baratro del primo conflitto mondiale, August Strindberg scrisse un romanzo intitolato “Bandiere nere” (un’impietosa e attualissima denuncia del “tradimento dei chierici” e della vacuità parolaia dei salotti, delle terrazze e altri più o meno sordidi milieu dell’eterno amichettismo intellettuale) e immaginò un “nessun luogo”, rigorosamente laico, denominato “Chiostro degli uomini stanchi”.
Situato simbolicamente in una delle tantissime isole che formano l’arcipelago di Stoccolma, luogo fondante dell’intera poetica di Strindberg, il chiostro avrebbe accolto chiunque, stanco e disgustato della realtà “reale” e delle chiacchiere della “rettorica”, avesse voluto dedicarsi a “esercizi di pensiero” mirati a rivelare la totale inconsistenza delle apparenze su cui si fondano i traffici sociali. In virtù del silenzio claustrale e della lontananza dal mondo, gli esercizi di pensiero, secondo Strindberg, avrebbero abbattuto tutte le barriere, perfino quella tra la vita e la morte, portando alla luce la verità vera, che lo stesso Strindberg mutuava e derivava da Goethe: la durata nel mutamento, l’unità nella diversità, l’Uno nel Tutto, il legame segreto tra cose ed emozioni. Un “nessun luogo” magnifico, senza alcun dubbio, che però non prendeva in considerazione l’eterno cuore di tenebra dell’animale uomo, i suoi abissi, i suoi orrori, certe sue native miserie.
Lo stesso Strindberg, infatti, uomo di improvvise accensioni ma anche di repentini ripensamenti, si rese conto di essersi spinto troppo oltre e corresse l’utopia in una chiave molto più realistica in un lungo racconto dal titolo “L’Isola della beatitudine”. Nessun “Chiostro degli uomini stanchi”, niente “esercizi di pensiero”, ma piuttosto un’isola che avrebbe accolto e ospitato folte schiere della nuova umanità dei “rincretiniti”: talmente cretini da non percepire nemmeno la propria irredimibile cretineria, scambiandola invece per intelligenza e prestigio sociale; talmente cretini, soprattutto, da non capire che l’Isola della Beatitudine era in realtà l’Isola degli Infelici.
Ma le utopie e gli “altrove” sono pressoché inesauribili. Intorno alla metà degli anni Trenta del secolo scorso, in un frangente molto simile a quello che aveva spinto Strindberg a scrivere “Bandiere nere”, col mondo intero che si stava gettando per la seconda volta nel baratro della guerra, lo scrittore e sceneggiatore americano James Hilton diede alle stampe un romanzo dal titolo “Orizzonte perduto” (che deve la propria celebrità, di riflesso, all’omonima trasposizione cinematografica di Frank Capra) e situò in Oriente, nell’“altrove” per eccellenza, l’utopia di Shangri-La, il fantomatico monastero tibetano il cui scopo, come dice il Gran Lama al diplomatico inglese Conway nel passo decisivo del romanzo, consiste nel «custodire le fragili eleganze di un’età moribonda, cercando quella saggezza di cui gli uomini avranno tanto bisogno quando le loro passioni si saranno consumate».
Ma Shangri-La è un “nessun luogo” soprattutto per un altro motivo: perché nega le consuete forme della percezione, lo spazio e il tempo. Si tratta infatti di una dimensione «dove il tempo si allarga e lo spazio si restringe», ogni assoluto diventa relativo e viceversa, la vita è lunghissima, interi decenni sono come un anno, la malattia la vecchiaia e la morte sono semplici accidenti di una sostanza eterna e immutabile (qui l’inevitabile rimando è nuovamente a Goethe e al “Libro di Suleika” del “Divano occidentale-orientale”: «A me lo specchio dice che sono bella! / Voi dite: invecchierà anche il mio astro. / Davanti al Dio tutto rimane eterno, / E Lui amate in me, per questo istante»). La versione cinematografica, pur notevole, ha molto stemperato la forte componente onirica e visionaria presente nel romanzo di Hilton, dove alla fine si rimane con un grande interrogativo: esiste un confine tra utopia, realtà e sogno?
Utopia, realtà e sogno. Già, dove corre il confine? Il grande scrittore romantico tedesco Jean Paul, operando una variazione piuttosto sapida e molto “canaille” sul titolo della celeberrima opera di Caldéron, aveva bensì ammesso che “la vita è sogno”, ma non aveva mancato di aggiungere che si tratta di un sogno che si sogna troppo spesso, o quasi sempre, su un materasso troppo duro. Tuttavia, mentre si continua a sognare il breve sogno della vita su un materasso troppo duro, rimane pur sempre la residua libertà, una volta constatata la mancanza della «formula che mondi possa aprirti», di definire almeno «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», come dicono i grandissimi versi di “Non chiederci la parola” di Eugenio Montale.
Chissà, forse è questa l’estrema utopia, sicuramente è uno dei pochi modi rimasti per conoscere veramente la “realtà”. «Sono le trippe che mantengono il cuore, non il cuore le trippe», sosteneva già a suo tempo, e con giusta ragione, il Sancho Panza di Cervantes. Albertine è scomparsa, probabilmente non la si troverà mai. Eppure la ricerca è necessaria, se si vuole vivere da umani in una realtà irreale e in un mondo disumano.