Non vogliamo avventurarci nel ginepraio dell'eredità hegeliana. E tuttavia, se vogliamo capire il farsi politica di alcune categoria filosofiche (secondo quello che è stato il telos idealista dapprima e la praxis marxiana e gramsciana poi), il discorso attorno all’«utopia» non può non partire proprio da Hegel.
Con Hegel si pone infatti quella che, in un certo senso, resta la proposta ultimativa intorno alla possibilità di tradurre l'utopia in realtà: consegnare nelle mani dell'azione umana il farsi della Storia. In altre parole, assegnare a noi il compito di trasformare il nostro destino da sogno in realtà (senza cadere nella sterilità del sogno irrelato).
Sulla necessità di un incontro fra songo e realtà, si sono poi espressi in molti. Marx parlava del «sogno di una cosa» e nelle sue Undici tesi rimproverava a Feuerbach quell'attendismo fatalistico che Gramsci avrebbe poi chiamato «assenteismo». Pasolini coniò la definizione di «militanza mistica» volta a riportare la coscienza popolare nel seno dell'attivismo; e Sanguineti assegnò a una specie di «anarchismo ideale» il compito di segnare l'orizzonte della nostra responsabilità di attori del cambiamento, di produttori della Storia: in particolare nel senso della riabilitazione delle classi subalterne e del contrasto dei privilegi dei ceti dominanti.
In ciascuna di queste posizioni – e in molte altre affini – è riconoscibile il marchio dell'«utopismo», che in una qualche misura può essere sintetizzato nella famosa formula di Weber: «Il possibile non verrebbe mai raggiunto se nella vita non si tentasse sempre l'impossibile».
Utopia: storia, filosofia, politica
Filosofia 03.05.2016, 11:35
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Chiedersi cosa sia «utopia» e quanto resti oggi, nel quotidiano e soprattutto nel politico delle nostre esistenze, dell'appello idealistico di Hegel nonché dei «padri storici dell'utopismo» (pensiamo a Saint-Simon o a Fourier) significa quindi domandarsi, in ultima istanza, quanto ancora siamo in grado di credere al determinarsi della Storia come effetto di praxis trasformativa umana e sociale e fino a che punto viceversa tali slanci siano del tutto ricaduti in quel «materialismo» che Gramsci intendeva, contro Bucharin, prodromo del fatalismo.
E significa, soprattutto, domandarsi se di utopia siamo ancora capaci oppure se l'Età della Tecnica abbia ormai annullato (relegandolo al ruolo di «passione triste» del capitalismo tecnologico) l'«ottimismo della ragione» e dell'intelligenza (che dall'utopia discende).
La domanda non ha risposte. Quanto appare ai nostri occhi è infatti, in apparenza, un mondo avvitato nelle logiche della rassegnazione, che non è più in grado di proporre se non una sorta di «teologia mercantile» senza rivali né oppositori. Il pianeta affonda nella propria implosione capitalistica, il clima cede alle ingiunzioni del produttivismo a oltranza, la povertà aumenta, la lotta di classe sembra consegnata ai nostalgici, giustizia, libertà e democrazia si fanno termini sempre meno cogenti e la stessa politica, lungi dall'essere immediata determinazione della filosofia, ricade nel flusso magmatico degli arrangiamenti di breve periodo e nell'abdicazione di ogni utopismo trasformativo davvero probante, facendosi ormai, su tutto il giro d'orizzonte, ancella dell'economia e delle grandi manovre finanziarie transnazionali.
Sull'utopia
RSI Cultura 13.02.2019, 09:35
Eppure l'ideale – e perché no, l'idealismo – ha ancora il suo spazio nella coscienza dei contemporanei. La resistenza, la resilienza, il militantismo, le opposizioni radicali non hanno cessato di offrire i propri contravveleni teorici e culturali ai corifei dell'ineluttabilità e della rassegnazione. Sacche di utopisti si profilano ovunque regnino le dittature del pensiero dominante e del fatalismo plebeo. E laddove sembrerebbe che l'unico scenario plausibile per il nostro martoriato pianeta sia quello di un'Apocalisse ambientale, morale e culturale irreversibile, nel concreto delle nostre vite pullulano atti di contestazione e di voluttà trasformativa nient'affatto trascurabili.
E sempre più diventa imperativo affidarsi all'esortazione di Maria Teresa di Calcutta: «Il mio lavoro è una goccia nell'oceano, lo so, ma senza quella goccia l'oceano ne sarebbe privo». Mirare a tradurre le gocce in cascate resta compito essenziale di ogni utopismo e di ogni coscienza etica e morale contemporanea.