Letteratura

1984

Orwell e noi

  • 2 agosto 2020, 00:00
  • 31 agosto 2023, 10:57
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George Orwell

George Orwell

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Di: Marco Alloni

Uno dei più tenaci luoghi comuni che accompagnano i nostri tempi è quello secondo il quale “Orwell lo aveva perfettamente previsto”. Che cosa sia questo lo è inutile indagarlo. Di volta in volta è la sorveglianza poliziesca degli Stati dittatoriali o finto-democratici, il bavaglio che sistematicamente viene imposto alla stampa non allineata, la subordinazione del proletariato ai disegni oscuri e antidemocratici del Partito, la fine del socialismo come progetto umanitario e via elencando.

Certo non c’è niente come il romanzo 1984 per sollecitare i lettori (e persino chiunque non abbia letto il libro in questione) a parlare di “letteratura profetica”, di “sguardo profetico”, di “capacità di anticipazione” e di “geniale intuizionismo”.

1984

Senonché 1984 è assai più un libro autentico di quanto non sia un libro profetico. Poiché lungi dal pretendersi una geniale anticipazione del futuro è in definitiva soprattutto una geniale capacità di osservare nel presente – in qualsiasi presente di qualsiasi epoca – quella che è l’inclinazione fondamentale del potere: sopraffare, dominare, imprigionare a sé, soggiogare.

Chiunque voglia sottrarsi a una lettura storicistica del capolavoro di Orwell si rende quindi immediatamente conto che in causa è un intero sistema di pensiero, vorremmo quasi dire un’antropologia che non ha mai cessato di essere identica a se stessa: secondo la quale l’umanità si divide, inesorabilmente e gerarchicamente, in sovrani e vittime e in vincitori e vinti. E che una simile ripartizione – tra alienatori e alienati – è lungi dal riguardare il solo Socing (ovvero in “neolingua” il solo Socialismo Inglese) o qualsiasi altra forma a venire di socialismo o di statalismo patologico: la determinazione investendo semmai qualsiasi forma di potere a qualsiasi latitudine e in qualsiasi tempo storico.

La potenza anticipatrice di Orwell è pertanto, ripetiamolo, una pura e semplice potenza di sguardo: la quale in ambito narrativo coincide con la potenza di uno sguardo autentico.

Che cos’è allora l’autenticità in letteratura? Non certo la semplice, in definitiva assai diffusa, capacità di indovinare le coordinate del futuro, bensì quella di sottrarsi alla radice a qualunque tentazione di leggere l’esistente secondo le stesse categorie dell’esistente. Una capacità che è tanto più autentica – e tanto più rimanda all’autenticità – quanto più a fondo riesce a conquistare allo sguardo lo straniamento (quello che Brecht, in modi forse troppo didascalici, chiamava Verfremdung).

I personaggi di 1984, a partire dal protagonista Winston, non sono allora semplici macchiette di una caricatura profetica del nostro tempo: sono viceversa e innanzitutto ciò che tutti noi siamo già oggi, siamo da sempre, siamo sempre stati, se solo lo si voglia riconoscere al di là della nostra alienazione: dei mostri inconsapevoli. E non solo laddove si voglia leggere nel potere la propria innata, istintiva mostruosità, ma laddove si sappia che mostruoso è lo stesso vittimismo e la stessa condiscendenza nei confronti del potere.

Questo dunque Orwell ha probabilmente voluto mettere in luce. Non la possibile deriva autoritaria di qualsiasi regime che si pretenda fondato sulla purezza del Partito e sulla sua incontestabilità. Di questo siamo tutti al corrente da ben prima dell’avvento di 1984, tant’è vero che a tirare per la giacchetta Orwell per farne di volta in volta un alleato o un antagonista sono state sia le “destre” che le “sinistre” tradizionali. No, ciò che nell’intimo della sua opera maggiore si vuole stigmatizzare è che nel proprio rapporto con il potere (sineddochicamente con il Partito) il “prolet” e il “Grande Fratello” sono due facce della stessa medaglia, quella della sudditanza al potere stesso: sia essa sudditanza alle sue suggestioni di comando sia essa sudditanza al suo verbo nelle vesti di dominati.

Insomma, il mostro è antropologico, non è storico. Il mostro è la nostra millenaria, invincibile, inespugnabile incapacità di organizzare la nostra vita – sia essa individuale o collettiva, privata o politica – altrimenti che nella logica del potere. E questo, antropologicamente parlando, è il segno più aberrante della nostra umanità o il più autentico della nostra disumanità.

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