Cinema

Cannes 2022

La prima settimana in 5 titoli

  • 23 May 2022, 11:55
  • 14 September 2023, 07:19
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Di: Chiara Fanetti

I film di questa prima parte dell’edizione 2022 del Festival di Cannes mostrano un programma che sembra aver trovato l’equilibrio perfetto tra produzioni degli studios (“Top Gun: Maverick” di Joseph Kosinski), registi emergenti (“God’s Creatures” di Saela Davis e Anna Rose Holmer, “99 Moons” del regista svizzero Jan Gassman) e nuovi lavori di affermati (James Gray, Cristian Mungiu e Marco Bellocchio, per citarne solo alcuni).

Tra i molti film interessanti già proiettati, una selezione di cinque titoli (quattro dal concorso principale, uno fuori concorso) da recuperare in sala:

“Triangle of Sadness”

Il regista svedese Ruben Östlund continua a provocarci anche con questo nuovo lavoro, il primo per lui in lingua inglese. Autore noto per la sua capacità di costruire storie che mostrano l’ipocrisia, la superficialità, la stupidità e la violenza presente nella nostra società, dopo aver preso di mira il mondo dell’arte con “The Square” (Palma d’oro a Cannes nel 2017) e i rapporti famigliari in “Forza maggiore”, Östlund sposta lo sguardo su influencers, industria della moda e un gruppo di ricchi in crociera. Malgrado l’ultimo terzo di film sembri più un capriccio del regista, che si distrae con troppi stereotipi e risvolti scontati, “Triangle of Sadness” ha dei momenti geniali (la scena del casting dei modelli è esilarante) e spinge lo spettatore davanti allo specchio, obbligandolo a confrontarsi con la propria posizione sociale e i propri privilegi, nel mondo del lavoro, nella vita di coppia, nell’interazione con l’altro. Östlund, seppure in modo meno efficace rispetto ai lavori precedenti, anche questa volta solleva il velo dell’ipocrisia che mettiamo in scena quotidianamente, con slogan sui social e grandi discorsi vuoti.

“Le otto montagne”


Il pubblico italofono attendeva questa trasposizione cinematografica dell’omonimo successo editoriale di Paolo Cognetti, firmata dai registi belgi Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. C’era una certa trepidazione anche di fronte all’idea di vedere di nuovo recitare insieme Alessandro Borghi e Luca Marinelli, tra gli attori più apprezzati della loro generazione, legati dall’aver condiviso l’inizio di carriera nel film di Claudio Caligari “Non essere cattivo”. Sono loro a dare un volto a Pietro e Bruno: il primo un bambino di città, l’altro un ragazzo di montagna, che ogni estate si ritrovano sulle Alpi e costruiscono un legame fraterno, interrotto dalle rispettive situazioni ma poi ricucito in età adulta di fronte ad un lutto. Arricchito da magnifiche riprese del paesaggio alpino e da una fotografia molto curata, il film potrebbe deludere chi cerca qualcosa di più esplicito, che dia sfogo concretamente ai non detti accumulati nel tempo dai due amici. La montagna però è concreta e diretta stando in silenzio e questo film, anche nei ritmi, traduce l’anima della montagna, utilizzando le pause e i tempi dilatati per arrivare quasi a farla recitare.

“Tchaikovsky’s Wife”

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Sorvolando sulle reazioni che ha destato la presenza di un regista russo a Cannes, concentriamoci su ciò che Serebrennikov ha portato al festival, "Tchaikovsky’s Wife”, ambientato nella seconda metà dell’Ottocento e incentrato sulla figura di Antonina Miliukova e sul suo lento declino verso la pazzia, ripudiata e abbandonata dal marito, il grande compositore Tchaikovsky, che l’aveva sposata per mettere a tacere le voci sulla sua omosessualità.

Kirill Serebrennikov è un regista che usa il cinema per toccare temi e corde sensibili che riguardano il suo paese: tuttora in Russia discutere l’orientamento sessuale di uno dei suoi più grandi artisti è un tabù e persino i diari di Tchaikovsky e la sua corrispondenza sono stati pubblicati integralmente solo nel 2018. Lo stesso progetto del film era stato ostacolato anni fa da una legge, approvata nel 2013, che vieta la “propaganda gay” in Russia.

"Tchaikovsky’s Wife” è vorticoso, un balletto dove Serebrennikov sfrutta gli ambienti per creare movimenti che sembrano coreografie, danze, con la camera che gioca e rincorre l’ottima protagonista, Alena Mikhailova, trasformando il film in una sorta di flusso, con ritmi, toni e citazioni che sono un chiaro tributo alla grande letteratura e musica russa.

EO

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  • Image Credit - Aneta Gebska i Filip Gebski

Il nuovo lavoro del maestro del cinema polacco Jerzy Skolimowski ha come protagonista (e da qui il titolo del film) un asino. Un asino che seguiamo, con riprese ravvicinate, in una serie di disavventure che iniziano quando viene portato via dal circo in cui lavora e dove è accudito con grande amore da una ragazza. Confiscato a seguito di un’azione di un gruppo di animalisti, Eo viene allontanato così dall’unica persona che si prende cura di lui e inizia a vivere una lunga serie di esperienze, nella maggior parte dei casi negative. È un film sull’innocenza, una dichiarazione d’amore verso gli animali, un racconto che mostra quanto il mondo che abbiamo costruito noi umani sia fondamentalmente crudele, violento o in ogni caso molto duro per loro. I suoni, gli spazi, i nostri comportamenti, il modo in cui li facciamo lavorare e li trattiamo: persino quando crediamo di agire per il loro bene rischiamo di ferirli, perché la verità è che delle loro emozioni sappiamo così poco. Un’esperienza visiva che si spinge fino al surreale e che gioca molto bene tra i close-up su Eo e l’immersione nel paesaggio europeo. Notevole quanto misterioso anche l’inaspettato cameo di Isabelle Huppert. Un inno alla libertà e all’empatia, che ci arriva dal regista più anziano presente quest’anno a Cannes: 83 anni.

“Three Thousand Years of Longing”


Fuori concorso il regista del favoloso “Mad Max: Fury Road”, George Miller, ci fa accomodare in un’elegante stanza d’hotel di Istanbul per assistere alla conversazione tra una professoressa accademica e un genio, che la studiosa ha accidentalmente liberato da un malridotto flacone. Potrebbe sembrare poca cosa per una trama e invece, anche grazie alle ottime interpretazioni di Tilda Swinton e Idris Elba, Miller riesce ad infilare l’universo in una stanza, proprio come un genio sta in una bottiglia e la fantasia e i miti risiedono nella nostra mente. Un avvolgente racconto sull’arte stessa di raccontare, sull’attesa e la solitudine e di conseguenza anche sulla condivisione. Una riflessione sul fantastico forse a tratti troppo verbosa ma emozionante e commovente, che nell’osannare la fantasia e nel criticare l’onnipresenza di scienza e tecnologia, ci dice in sostanza che anche trovare il vero amore è quasi un racconto epico, qualcosa di improbabile e miracoloso.

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