Letteratura

Carlo Emilio Gadda

La guerra infinita dell’Ingegnere

  • 21 maggio 2023, 00:00
  • 14 settembre 2023, 09:01
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Di: Mattia Mantovani

Non è affatto consigliabile guardare nel fondo dell’animo umano, dice l’umiliato e offeso Woyzeck in una scena dell’omonimo dramma di Georg Büchner, perché quasi sempre si vede un abisso che provoca il capogiro. Per quanto tutte le idealità si siano sforzate e si sforzino di far credere il contrario, la verità rimane infatti un’altra, ed è una verità semplicissima: “in principio” non ci sono né il “Verbo” né l’“Azione”, come cabalizza il protagonista in un celeberrimo passo del “Faust” di Goethe. Perché “in principio”, come aveva già intuito Eraclito, c’è il “Pólemos”, lo scontro, il conflitto, la volontà di potenza e sopraffazione, più in generale la tendenza a circoscrivere la propria dubitosa identità non solo e non tanto per affermazione, ma soprattutto per negazione dell’identità altrui.


Viene da pensare, a questo proposito, alla domanda “Chi sono io?” di Max Frisch e al lungo racconto “Montauk”, pubblicato nel 1975, dove c’è un passo in cui l’io narrante prende atto della propria “identità” in quel preciso momento e infine afferma: «Nella vita ci sono soltanto due cose veramente importanti. Ciò che abbiamo fatto e non avremmo voluto fare, e ciò che non abbiamo fatto e avremmo voluto fare». Si tratta di una constatazione molto simile a quella espressa da Ennio Flaiano in un passo dell’“Autobiografia del blu di Prussia”, poi elevato ad aforisma: «I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume».

Nel caso di Carlo Emilio Gadda è piuttosto semplice determinare il lungo e protratto momento decisivo, situato per così dire nella “porosità” della giovinezza, che ha plasmato e modellato in maniera sostanziale la sua individualità e tutto quanto è venuto dopo, sia dal punto di vista biografico (la sua scettica, disincantata e spesso sprezzante visione del mondo e della tragicommedia umana, le frequenti nevrosi e paranoie rinvenibili un po’ ovunque nei suoi scambi epistolari), sia dal punto di vista letterario (il suo stile unico e inimitabile, le invenzioni lessicali e i funambolismi sintattici, che di fatto hanno creato una lingua e sono stati raccolti in un volume opportunamente intitolato “Gaddabolario”).

Il motivo è davvero di facile individuazione: perché il futuro ingegnere e grande scrittore ha fatto parte di una delle tante “generazioni perdute” della storia italiana, «soldati senza bandiera» mandati allo sbaraglio in una guerra voluta da una losca entità astratta oppure da «una bestiale tirannia», come scriverà poi l’ufficiale medico -e anch’egli futuro grande scrittore- Mario Tobino a proposito della dissennata campagna di Libia nella seconda guerra mondiale, chiedendosi da ultimo cosa sia mai una “bandiera”. Che una “bandiera” -nel senso più ampio e differenziato del termine, che comprende anche l’identità- sia spesso il prodotto di una finzione imposta da altri oppure un autoinganno, il poco più che ventenne Gadda -studente del Politecnico di Milano, giovane nazionalista e interventista come l’amatissimo fratello aviatore Enrico (che morì nell’aprile 1918 durante un volo di ricognizione, provocando in Carlo Emilio una ferita umana e morale mai rimarginata: «Tu non eri il mio fratello, ma la parte migliore e più cara di me stesso»)- lo ha capito negli oltre tre anni che lo hanno visto prendere parte come tenente degli Alpini al primo conflitto mondiale e hanno mutato radicalmente il suo atteggiamento nei confronti della vita e degli uomini.

La “guerra” intesa come “Pólemos”, per Gadda, coincide infatti con la “vita” ed è un’esperienza totalizzante non solo (non tanto, si vorrebbe quasi precisare) per la presenza del “nemico” (l’identità altrui) da combattere, ma anche per l’indignazione causata da quella che egli stesso, con una di quelle fulminanti ideazioni che diventeranno poi la sua cifra stilistica, definisce la «vita pantanosa» della caserma, fatta della tronfia incompetenza dei grandi generali e dell’«egotismo cretino dell’italiano» che riduce tutto a una bassa questione personale e pensa soltanto al proprio tornaconto (qui non siamo distanti da quello che quasi mezzo secolo dopo sarà “Eros e Priapo”, con la figura del “Kuce” Mussolini ribattezzato “Predappio-Fava” e la caratterizzazione socio-antropologica del fascismo), con l’aggiunta della sordida canaglia dei vigliacchi, degli imboscati e dei profittatori, che costituiscono la quinta di cartapesta -ma drammaticamente reale- di ogni “guerra”.

Questa dimensione fondamentale, che si profila inizialmente nello straordinario “Diario di guerra e di prigionia” (i taccuini di guerra, pubblicati per la prima volta nel 1955) e viene ribadita in molte poesie del periodo 1919-1922, torna in infinite variazioni in tutta la sua opera e ne costituisce il basso continuo. Per utilizzare un’altra metafora musicale, si potrebbe dire che la “guerra”, per Gadda, costituisce un leitmotiv sul quale si innestano infiniti rimandi interni, continue slogature ritmiche, repentini e sempre disorientanti passaggi dal minore al maggiore oppure dal battere al levare, fino all’apoteosi de “La cognizione del dolore” passando per gli urticanti “disegni milanesi” de “L’Adalgisa”, le «fiammate d’odio» degli “Accoppiamenti giudiziosi” contro la borghesia dell’odiamata Milano/Pastrufazio, («sacra e buseccherita città della saggezza moraleggiante... e stentatamente grammaticante»), e non da ultimo l’incursione nel territorio del giallo con “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana”. Un giallo tipicamente gaddiano, tuttavia, senza una plausibile soluzione e non privo di analogie coi gialli di Friedrich Dürrenmatt, soprattutto per le somiglianze tra i commissari Ingravallo e Bärlach e la sostanziale impossibilità, nello “gnommero” (il guazzabuglio o pasticciaccio, parola gaddiana per eccellenza) di una vita che è “guerra” e un mondo che è una “valle del caos”, di distinguere vittime e carnefici. Lo stesso Pietro Germi, che ne trasse un ottimo film dal titolo “Un maledetto imbroglio”, ne diede un giudizio paradossale che è già un complimento: «Ma chi è l'assassino? Io non sono riuscito a capire… E poi è pieno di parole complicate…».

Se è lecito, nel caso di Gadda, parlare di un “continente” (così come è lecito nel caso di Dürrenmatt, che gli era stilisticamente e tematicamente molto affine), è altrettanto lecito affermare che la “guerra” costituisce il modo migliore per esplorarlo. Perché è durante la Grande Guerra, in quel lungo frangente di contatto strettissimo con le verità elementari dell’animale-uomo (ma anche, sono parole sue, con «uno dei tanti paragrafi della merda italiana»), che è nato il grande scrittore e virtuoso della lingua. La “Guerra di Gadda”, per riprendere il titolo di un volume di lettere e immagini pubblicato da Adelphi, che ne sta riproponendo l'opera, si è svolta concretamente sullo sfondo rappresentato dalla Valtellina, l’Adamello e la zona del Tonale, prima del trasferimento in Friuli, dove Gadda partecipò alla battaglia di Caporetto nell’ottobre 1917. Fatto prigioniero, fu infine trasferito insieme ad altri ufficiali nel campo di prigionia di Rastatt, nella zona di Stoccarda, e in seguito nei pressi della città di Celle in Bassa Sassonia, non lontano da Hannover. Poté fare ritorno in Italia solo alcuni mesi dopo la fine della guerra, intorno alla metà di gennaio 1919.

Come in ogni grande scrittore, anche in Gadda c’è una frase che riassume e spiega il senso di tutta l’opera, o addirittura la anticipa. Ed è contenuta precisamente nel “Giornale di guerra e di prigionia”: «Se la realtà avesse avuto minor forza sopra di me, oppure se la realtà fosse di quelle che consentono la grandezza, io sarei un uomo che vale qualcosa. Ma la realtà di questi anni, salvo alcune fiamme generose e fugaci, è merdosa, e in essa mi sento immedesimare e annegare. Quando imparerò il disprezzo degli altri? Quando avrò per me quella meravigliosa forza d’istinto che consiste nel sentire, dell’uomo che ci sta presso, la rivalità, non l’affinità? Io sento la simpatia e l’affinità, guardo con occhio amico ogni porco che passa».

Negli anni seguenti, riflettendo più a freddo e con la giusta e debita distanza sull’esperienza della guerra, Gadda imparerà infine sia il “disprezzo” che la “rivalità”, lo scherno e il sarcasmo, la rabbia e il disgusto, stilizzandoli in altissime e spesso ardimentose figurazioni artistiche. Da questo punto di vista, fatte salve talune sostanziali differenze di approccio e temperamento, nonché di retroterra culturale, la sua personale esperienza della Grande Guerra fu molto simile a quella di altri interventisti della prima ora poi convertiti al pacifismo e all’internazionalismo, come nel caso di Stefan Zweig, oppure spinti a considerare l’invisa democrazia quale male minore e a rinunciare all’idea di superiorità della propria cultura di riferimento, come nel caso più eclatante, quello rappresentato da Thomas Mann.

Il “Giornale di guerra e di prigionia” restituisce con immediatezza visiva e una ricchezza lessicale già tipicamente “gaddiana” gli orrori reali e metaforici della “guerra”: la regressione alla nuda vita, messa costantemente a repentaglio dal fuoco nemico, le baracche inospitali, la tortura delle mosche e dei miasmi infetti, e infine il girone dantesco, la prigionia in Germania, segnata da «un’orrenda vergogna». Tuttavia, prima ancora che nella rotta di Caporetto e durante la prigionia in Germania, lo scrittore Gadda nasce nei lunghi mesi di snervante attesa trascorsi tra Edolo e Ponte di Legno, durante i quali -anche in virtù di un serratissimo scambio epistolare col fratello Enrico, di stanza a Bormio- ricava la prima e decisiva percezione dell’abisso che separa, secondo le sue stesse parole, «il presumere e il conseguire». Scriverà poi ne “Il castello di Udine”: «Ho dunque facilmente riconosciuto anche alla guerra, e già conoscevo per altra esperienza d’altri disumani dolori, che certi fatti bruti, materia, necessità, causa, dite come volete, sono essi a volte i discriminanti delle cose reali più che non quelli (pensiero, volere) i quali pertengono alle attività dell’apice nostro e dovrebbero prepararci il dabben futuro, il dabben premio e la dabben vittoriuzza, secondo l’aspettazione dei più nobili cuori, e dei cervelli più sciocchi». E’ inoltre nei tre anni di guerra che Gadda percepisce per la prima volta, ma con abbacinante chiarezza, gli uomini alla stregua di «ombre che passano tra le torri deserte delle cose meccaniche».

La “guerra”, per Gadda, è quindi la radice volutamente non estirpata, e anzi perfino accudita e coltivata, della vita e dell’identità percepite costantemente come assenza, latitanza, bisogno, privazione, in ultima analisi sofferenza: cognizione del dolore, scriverà poi in un passo dell’omonimo romanzo, «di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi; e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato». E’ il dolore, oggetto di un impietoso scavo psicanalitico nel rapporto tra il protagonista Gonzalo e la madre, che si porta «dentro di sé» insieme a un’altra consapevolezza, espressa nel medesimo romanzo, che ci appare perfino più ardua, faticosa e gravida di conseguenze: il «vecchio pupazzo», «lercia trippa» e «immondo bipede» è sempre lo stesso, e tale rimarrà: «Le feci e il sangue sono le sostanze fondamentali della vita. Tutto il resto è solo apparenza».

Carlo Emilio Gadda, nato il 14 novembre 1893 a Milano e morto a Roma il 21 maggio 1973, rimane ancora oggi un “celebre sconosciuto”, molto citato ma poco letto, e soprattutto poco proposto dalle scuole («le universe discipline delle gran cattedre»), perché considerato di ardua lettura. A cinquant’anni dalla morte, è forse venuto il momento di sfatare definitivamente il mito secondo il quale Gadda sarebbe uno scrittore “difficile” da capire e accostare. Beninteso, non perché Gadda sia uno scrittore facile e corrivo, ma per un motivo molto più profondo e dirimente. Perché nelle sue opere, nelle sue infinite variazioni sul tema della “guerra”, non c’è niente da “capire” nel senso tradizionale e banale del termine. E poi perché le sue parole si stagliano plasticamente su uno sfondo costituito dal silenzio del tempo e della morte: un silenzio che si può e si deve ascoltare e interiorizzare leggendo, ma non si può e non si deve “capire”.

Lo ha detto molto bene il suo fraterno amico Goffredo Parise, anch’egli esperto della “guerra” (nelle sue varie declinazioni) e del relativo “odore del sangue”, compagno di complicità e confidenze nonché vicino di casa a Roma negli anni Sessanta: «In Gadda non è necessario “capire” le parole, nei contesti, in quanto le parole si fanno capire da sé soltanto a chi le legga, matericamente, una per una, e una dopo l’altra, non come strumento di un discorso, ma oggetti fini a se stessi. E’ così che, una volta racimolate, enumerate e toccate fisicamente, o nella successiva e a volte immota contemplazione pura, le parole trasmettono, come gli astri elencati da un qualsiasi dilettante ma amoroso astronomo, la grandezza del loro autore».

Ma forse lo ha detto ancor meglio lo stesso Gadda in una poesia del 1919, situata cronologicamente nel preciso punto di passaggio tra l’esperienza giovanile della guerra e la successiva reinvenzione della “guerra” nella scrittura e nella cognizione del dolore. Un dolore che è il dolore stesso dell’esistere, della “guerra”, dello “gnommero”, oltre ogni comprensione delle «universe discipline delle gran cattedre»: «Le nuvole passano il muto / cielo. Ha taciuto / la battaglia. Tace coi morti / il monte, / senza suono, senza terribilità».

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