Arte

Diane Arbus

L’eredità della fotografa newyorkese

  • 14 marzo, 07:12
Diane Arbus durante una lezione presso la Rhode Island School of Design, 1970. Photo Stephen Frank.jpg

Diane Arbus durante una lezione presso la Rhode Island School of Design, 1970

  • Photo Stephen Frank
Di: Francesca Cogoni
Una fotografia è un segreto intorno a un segreto. Quanto più ti dice, tanto meno riesci a capire

Diane Arbus

Tra le tante fotografe che hanno segnato il XX secolo con il loro sguardo, Diane Arbus è senza dubbio colei che si distingue maggiormente per l’audacia dei temi trattati e per il personale approccio al medium fotografico. “Fotografa dei mostri” è stata spesso appellata, ma è una definizione profondamente superficiale e immeritata, figlia della cattiva abitudine di affibbiare facili etichette. Diane Arbus, piuttosto, era la fotografa di tutto ciò che non rientrava nelle comuni categorie del convenzionale, sicuro e rassicurante. Con la fotocamera, ha esplorato territori mai battuti prima, dando vita a immagini che permangono nella mente in virtù del peculiare intreccio di inquietudine e mistero.

Diane Arbus, Masked woman in a wheelchair, PA. 1970. ╕ The Estate of Diane Arbus.jpg

Diane Arbus, Masked woman in a wheelchair, PA. 1970

  • The Estate of Diane Arbus

“Quello che mi piace più di ogni altra cosa è andare dove non sono mai stata”, dichiarava spesso Diane Arbus ai suoi studenti. Per lei, in realtà, non era necessario andare molto lontano. I suoi soggetti li cercava, e li trovava, camminando lungo Central Park, Washington Square Park, Times Square o Coney Island, setacciando i luoghi più popolari e i bassifondi di New York, tra persone e posti agli antipodi rispetto a quelli frequentati durante la sua fanciullezza dorata e protetta.

Diane Arbus, Tattoed Man at a Carnival, 1970. ╕ The Estate of Diane Arbus.jpg

Diane Arbus, Tattoed Man at a Carnival, 1970

  • The Estate of Diane Arbus

Diane Nemerov, questo il suo nome da nubile, nasce il 14 marzo 1923 a New York, in una famiglia dell’alta borghesia ebraica, proprietaria dei grandi magazzini Russeks, sulla Fifth Avenue. Seconda di tre figli, Diane cresce in un grande appartamento situato al celebre indirizzo di Central Park West, circondata da bambinaie, cuochi e parrucchieri, trattata come una principessa, nulla può nuocerle. “Una delle cose di cui ho sofferto da bambina è che non percepivo mai la sfortuna. Ero cristallizzata in un senso d’irrealtà” confesserà anni dopo la fotografa. Sarà proprio la realtà nuda e cruda, anzi le tante facce della realtà, spesso nascoste o ripudiate, a catturare il suo sguardo una volta cresciuta e distaccatasi dall’ovattato e opprimente ambiente famigliare.

Diane Arbus, Two female impersonators backstage, N.Y.C. 1962. ╕ The Estate of Diane Arbus.jpg

Diane Arbus, Two female impersonators backstage, N.Y.C. 1962

  • The Estate of Diane Arbus

A tredici anni, Diane perde la testa per il diciottenne Allan Arbus. Lui lavora nel reparto pubblicità dei magazzini Russeks, ma nei suoi sogni c’è il teatro. Il legame tra i due non è ben visto dai genitori di Diane, che per distoglierla dal ragazzo la mandano in un prestigioso college del Massachusetts a studiare pittura. Ma, sebbene talentuosa, lei detesta la pittura. Il suo unico obiettivo è sposare Allan Arbus. Cosa che avviene non appena Diane compie diciotto anni.

È proprio il marito a regalarle la sua prima macchina fotografica, ed è insieme a lui che, intorno alla metà degli anni Quaranta, Diane apre uno studio fotografico specializzato in servizi di moda e pubblicità. Nel giro di pochi anni, però, si accorge che quel mondo patinato e finto non fa per lei, decide così di proseguire autonomamente, impegnandosi in una ricerca tormentata tanto quanto la sua anima. “Ci sono cose che nessuno vedrebbe se io non le fotografassi”: questo è il pensiero che la guida e la sprona a trovare la sua strada. Fondamentale in questa fase è l’incontro con la fotografa Lisette Model, pioniera della street photography, che spinge Diane a puntare il suo obiettivo verso tutto quanto la attrae e la colpisce, anziché verso ciò che è più conveniente o scontato.

Diane Arbus, A young man and his girlfriend with hot dogs in the park, N.Y.C. 1971 ╕ The Estate of Diane Arbus.jpg

Diane Arbus, A young man and his girlfriend with hot dogs in the park, N.Y.C. 1971

  • The Estate of Diane Arbus

Nel 1959, Diane Arbus si separa definitivamente dal marito, va a vivere da sola con le due figlie e, quando non deve occuparsi di loro, inizia a esplorare in lungo e in largo la città alla scoperta di esistenze solitarie e creature eccentriche, quell’umanità varia e imprevedibile che popola le strade malfamate, i locali angusti e le vecchie stanze d’albergo della Grande Mela. In questo periodo, giunge anche il suo primo incarico per una rivista importante: un reportage su New York per le pagine di «Esquire».

Nel frattempo, Diane stringe una profonda amicizia con il noto fotografo Richard Avedon e con l’artista e art director Marvin Israel, che diventerà suo fidato consigliere. Sono gli anni della Beat Generation e poi della cultura hippie, della Pop Art e del New American Cinema, tempi di grande sperimentazione e agitazione, e Diane Arbus consolida il suo personale linguaggio espressivo ribellandosi ai dettami estetici e morali.

Eloquenti le parole di Susan Sontag a tale proposito: “Buñuel, quando gli chiesero perché faceva film, rispose una volta che era ‘per mostrare che questo non è il migliore dei mondi possibili’. Arbus faceva fotografie per mostrare qualcosa di più semplice: che esiste un altro mondo”.

Diane Arbus, Woman with a veil on Fifth Avenue, N.Y.C. 1968. ╕ The Estate of Diane Arbus.jpg

Diane Arbus, Woman with a veil on Fifth Avenue, N.Y.C. 1968

  • The Estate of Diane Arbus

Già, l’altro mondo immortalato da Diane Arbus si trova al crocevia tra il mondo alla rovescia stile Alice nel paese delle meraviglie (non a caso, una delle sue letture preferite) e il “wild side” cantato da Lou Reed. È il lato oscuro e selvaggio quello che preferisce indagare con la sua fotocamera. L’ordinario non è contemplato nel suo repertorio, nemmeno nelle situazioni apparentemente più banali. Per esempio, la foto intitolata Christmas tree in a living room in Levittown, L.I., scattata nel 1962, primo periodo della sua ricerca autonoma, mostra un grande e opulento albero di Natale sistemato in un angolo; è decisamente sproporzionato rispetto alla sala che lo accoglie e l’effetto è grottesco più che suggestivo. Analogamente eccessiva è la statura del protagonista di A Jewish giant at home with his parents in the Bronx, N.Y. (1970), una delle fotografie più iconiche di Arbus, risalente all’ultimo periodo della sua carriera. Qui, ad alterare la consuetudine domestica è la presenza di un uomo affetto da gigantismo, accanto ai suoi “piccoli” genitori.

Diane Arbus, A Jewish giant at home with his parents in the Bronx, N.Y. 1970. ╕ The Estate of Diane Arbus.jpg

Diane Arbus, A Jewish giant at home with his parents in the Bronx, N.Y. 1970

  • The Estate of Diane Arbus

Coppie bizzarre, nani, performer del circo, transessuali, nudisti, gemelli (Triplets in their bedroom o le celebri gemelline di Identical Twins, poi omaggiate da Kubrick nel film Shining): tutto ciò che travalica il comune senso di “normalità” è per Diane Arbus oggetto di fascino, interesse e attenzione. “Ho fotografato molto i fenomeni da baraccone. Sono stati i primi soggetti che ho fotografato e ne ero decisamente esaltata. Li adoravo. E ne adoro ancora alcuni. Non direi che sono i miei migliori amici, mi fanno provare un sentimento di vergogna e di terrore. Ma c’è una qualità leggendaria nei mostri. […] La maggior parte della gente vive nella paura d’essere esposta a un’esperienza traumatica. I mostri, invece, sono nati con il proprio trauma. Hanno già passato la prova della loro vita. Sono degli aristocratici”.

Diane Arbus, Identical twins, Roselle, N.J. 1967. ╕ The Estate of Diane Arbus.jpg

Diane Arbus, Identical twins, Roselle, N.J. 1967

  • The Estate of Diane Arbus.jpg

Grazie all’originalità dei suoi scatti, nel 1963 e nel 1966 Diane Arbus si aggiudica la Guggenheim Fellowship per il progetto intitolato American Rites, Manners, and Customs e intraprende un viaggio lungo il Paese, ritraendo persone, posti e manifestazioni che lei chiama “le grandi cerimonie del nostro tempo”, “i nostri sintomi e i nostri monumenti”. Le sue immagini perturbanti suscitano reazioni negative e vengono censurate da alcune riviste, ma anche amate da molti, per esempio John Szarkowski, direttore del dipartimento di fotografia del MoMA, che nel 1967 invita Diane a partecipare alla rivoluzionaria mostra New Documents, accanto a Lee Friedlander e Garry Winogrand.

Diane Arbus, Untitled (49), 1970-71 ╕ The Estate of Diane Arbus.jpg

Diane Arbus, Untitled (49), 1970-71

  • The Estate of Diane Arbus

Negli ultimi anni della sua breve carriera, Diane Arbus è ormai conosciuta e stimata, insegna fotografia alla Parsons School of Design e alla Rhode Island School of Design, tra le altre, e realizza una intensa serie di fotografie (Untitled) presso alcuni istituti per disabili mentali. Nonostante i riconoscimenti e i successi, però, Diane continua a sentirsi come “un funambolo che potrebbe cadere se qualcuno si mettesse a gridare” (così riferisce un giorno all’amica Lisette Model), tra problemi di salute, crisi depressive, abuso di psicofarmaci, solitudine e fantasmi interiori troppo ingombranti. Il 26 luglio 1971, a soli quarantotto anni, Diane Arbus si toglie la vita ingerendo una grande quantità di barbiturici e poi tagliandosi i polsi.

L’anno dopo, le sue opere saranno esposte alla Biennale di Venezia (nessun fotografo statunitense aveva mai avuto questo privilegio), mentre il MoMA le dedicherà un’importante retrospettiva, che girerà gli Stati Uniti tra il ’72 e il ’75. Poche fotografe nella storia hanno avuto una tale influenza come Diane Arbus: possiamo trovare tracce della sua eredità in tanti autori successivi (un nome su tutti, Nan Goldin). Quel sotto-mondo o oltre-mondo costantemente scrutato, quei suoi splendidi outsider, imperfetti, diversi ed esclusi continuano a guardarci e a parlarci di lei e del suo stile pervaso di “ruvida grazia”, per usare un’efficace espressione del critico d’arte Richard Lacayo.

Gabriele Bertossa

Gli espatriati 28.11.2023, 06:30

  • Gabriel Bertossa

Ti potrebbe interessare