Letteratura

Dino Buzzati

Aspettando i Tartari

  • 30 marzo 2022, 08:23
  • 14 settembre 2023, 09:19
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Di: Mattia Mantovani

La verità umana e poetica di Dino Buzzati è in ultima analisi la stessa del Narratore nella “Recherche” di Proust e dei due copisti Bouvard e Pécuchet nell’omonimo romanzo di Flaubert: esistono soltanto due certezze, il tempo che passa e il nulla da cui proveniamo e che ci attende, tutto il resto è groviglio dell’interiorità, finzione, miraggio, “corsa dietro il vento”, come dice il titolo di un suo racconto che si può leggere quale manifesto poetico e visione del mondo. Vale forse la pena di aggiungere le parole di un altro celebre “antenato” come Guy de Maupassant: «Beati coloro che non si accorgono, con sterminato ribrezzo, che niente cambia, niente passa e tutto stanca».

Il tempo passa, le cose si perdono: Buzzati non ha mai smesso di evocare queste certezze -che in lui erano autentiche ossessioni, elegantemente celate sotto una rigorosa etica del lavoro e un “aplomb” elusivo e signorile- e le ha variamente declinate nella sua opera narrativa, nei testi per il teatro e negli scritti giornalistici, non da ultimo negli articoli dedicati a vicende di cronaca nera. Ci sono infatti molti validi motivi per definire Buzzati un grande scrittore, senza dubbio tra i più importanti dell’intero Novecento italiano, ma ce n’è uno sul quale non si è mai riflettuto a sufficienza: la versatilità, o in altri termini la capacità di mantenere sempre un’altissima qualità di scrittura, indipendentemente dal genere e dal contesto.

Anche quando la sua fama come scrittore di romanzi e racconti aveva raggiunto una dimensione internazionale, Buzzati non ha mai cessato di essere cronista e soprattutto di fare il cronista, non ha mai rinnegato la sua passione originaria e ha più volte affermato che la sua autentica scuola di scrittura erano state le lunghe ore trascorse nella redazione del “Corriere della Sera” ad occuparsi di fatti di cronaca, reinventandoli in senso narrativo (dove ovviamente per “reinvenzione” bisogna intendere la trasformazione di un fatto in un racconto, che è la base e il principio portante di ogni autentica espressione letteraria).

Il cronista Buzzati -un po’ come il Flaubert di “Madame Bovary”, il Dostoevskij del “Diario di uno scrittore” oppure lo Stendhal de “Il Rosso e il Nero”- è un grande narratore proprio perché gli basta un semplice spunto per rimodellare un “fait-divers” in un racconto esemplare, che perviene immediatamente allo spicco simbolico. Ecco il motivo per cui le vicende di cronaca reinventate da Buzzati nei suoi articoli di “nera”, per quanto siano ormai trascorsi interi decenni, ci appaiono sempre più vicine e attuali, sempre più misteriose e drammaticamente indecifrabili. Lo stesso discorso vale per la sua opera pittorica, ampia e differenziata, dal dipinto in senso tradizionale al graphic novel (“I misteri di Milano” e lo straordinario “Poema a fumetti”, pubblicato nel 1969, sono tra libri che hanno inaugurato il genere in ambito italiano), che Buzzati ha sempre invitato a considerare come una prosecuzione o commento per immagini dell’opera giornalistica e narrativa.

Il tempo prende toglie e sottrae senza dare nulla in cambio, la vita è attesa di qualcosa di non meglio definito che con ogni probabilità non arriverà mai. Da “Il deserto dei Tartari” a “Un amore”, da “Il grande ritratto” fino a racconti come “I sette messaggeri” e “Il Colombre” (solo per ricordare i più celebri, ma l’elenco sarebbe lunghissimo), il sentimento del tempo è un basso continuo sul quale Buzzati intreccia e costruisce vicende fantastiche, apre scenari inconsueti e sconfina nel mistero e nell’indicibile. Il tempo che passa è stato tuttavia generoso con la sua memoria, perché a mezzo secolo dalla morte la sua opera narrativa non ha perso nulla dell’impatto originario.

Classico nello stile e nell’approccio all’espressione scritta, ma insieme modernissimo, di una modernità vibrante e straniante, perché nel frattempo talune sue visioni che all’epoca potevano sembrare distopiche sono diventate realtà quotidiana, Buzzati appartiene a quei classici che non solo non hanno bisogno degli anniversari tondi per essere riscoperti e rivalutati, ma anzi proprio nella loro classicità, e cioè nella capacità di fissare alcune coordinate eterne della condizione umana, risultano indispensabili per capire l’attualità.

E’ il caso, in particolare, di un romanzo come “Il deserto dei Tartari”. Lo stesso Buzzati, in un breve scritto di quattro semplici cartelle battute a macchina con alcune aggiunte a mano, ha spiegato le cause remote, se così le si può definire, e i motivi del romanzo: «Probabilmente tutto è nato nella redazione del “Corriere della Sera”, dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no».

E’ in quelle notti che Buzzati creò la figura del suo alter-ego, il giovane ufficiale Giovanni Drogo, protagonista del romanzo uscito poi nel 1940. Drogo viene assegnato alla Fortezza Bastiani, l’ultimo avamposto affacciato sul grande Nord, al confine con l’immenso territorio dei Tartari, e consuma l’intera vita nella loro attesa. Alla fine i Tartari arrivano, ma per Drogo è troppo tardi: invecchiato precocemente e malato, è costretto ad abbandonare la fortezza e muore proprio mentre il nemico si sta profilando all’orizzonte. Perché i Tartari, attesi per anni e anni nella convinzione che fossero l’esatto opposto (la Vita vera, il senso e il contenuto dell’esistenza), non sono altro che la morte. Gli estremi si toccano: il senso della vita è la morte, il contenuto dell’esistenza è la progressiva e irrimediabile negazione del contenuto stesso. La parabola di Drogo, osserva Buzzati, è quindi la «sintesi della sorte dell’uomo sulla Terra, del destino dell’uomo medio in attesa di un’ora di gloria che continua ad allontanarsi, allontanarsi, allontanarsi, finché, diventato vecchio, si accorge che questa sua aspirazione è andata buca».

Lorenzo Viganò, che ha ottimamente curato la più recente ristampa del romanzo, arricchita da un’ampia appendice con numerosi materiali inediti, ha proposto un’ulteriore chiave di lettura, in parte smarcata dalla dimensione dell’apologo e della metafora e maggiormente legata alla più recente attualità della pandemia, individuando alcune nuove coordinate per inquadrare la vicenda di Drogo: «La fortezza-casa, l’attesa, il nemico-virus all’esterno da cui difendersi, il senso distorto del tempo». E’ senza dubbio molto suggestiva -ma di una suggestione davvero inquietante- l’analogia tra i Tartari e il virus: entrambi temuti, entrambi invisibili, entrambi oggetto di un’attesa paranoica. Entrambi, infine, con effetti devastanti: il crollo dell’idea di comunità, la regressione alla nuda vita, l’istinto di sopravvivenza, la lotta di tutti contro tutti, la paura ancestrale della sofferenza, della malattia e del nulla, esattamente come succede nel romanzo a Drogo e agli altri personaggi, pirandelliane “maschere nude” chiuse nel proprio ego e prigioniere nell’universo concentrazionario della Fortezza Bastiani.

La più recente edizione, grazie ai materiali ritrovati nel lascito letterario di Buzzati e riprodotti in appendice, è davvero destinata a segnare una svolta nella ricezione dell’opera. E’ infatti molto significativo il trattamento cinematografico scritto nel 1962 insieme al regista e sceneggiatore francese Claude Sautet, non solo perché si discosta lievemente dalla trama del romanzo, ma soprattutto perché costituisce uno dei tanti snodi del lungo e tortuoso percorso “dal libro al film” che si concluse nel 1976, quattro anni dopo la morte di Buzzati, con l’uscita de “Il deserto dei Tartari” firmato da Valerio Zurlini.

Ma è ancora più interessante e rivelatrice la scaletta originaria del romanzo, due grandi fogli scritti a matita, databili intorno alla metà degli anni Trenta, con un finale all’apparenza molto diverso da quello poi scelto per la versione definitiva. I Tartari non arrivano mai, l’anziano e disilluso Drogo raggiunge l’età del pensionamento e torna in città, dove più nessuno l’aspetta. Qualche anno dopo, tuttavia, divorato dalla pungente sensazione del “temps perdu”, si ripresenta alla fortezza in compagnia del capitano Ortiz, semplicemente per vederla una volta ancora.

Però non c’è più niente da vedere, perché «la fortezza ormai è vuota. Il sistema di difesa è diverso. Vive soltanto il vecchio calzolaio Matteo, e i tre guardano ancora all’orizzonte da cui non verrà mai nessuno…». E’ proprio questo finale alternativo ad esprimere compiutamente la grandezza dell’idea che sta alla base del capolavoro di Buzzati: niente cambia, niente passa e tutto stanca, nulla vale nulla, non importa se i Tartari arrivano o meno, il vecchio Drogo, come il personaggio di Ernst Kazirra in un racconto posteriore dello stesso Buzzati, “I giorni perduti”, osserva i giorni della propria vita come ammonticchiati in una grande discarica, senza alcuna possibilità di recuperarli. Si capisce allora il senso di una frase pronunciata da Buzzati in un’intervista del 1966, un quarto di secolo dopo l’uscita del romanzo e pochi anni prima di morire: «“Il deserto dei Tartari” è il libro della mia vita, perché quando lo stavo scrivendo capivo che avrei dovuto continuare a scriverlo per tutta la durata della mia esistenza, e concluderlo solo alla vigilia della morte». Così come Thomas Mann non ha fatto altro (si fa per dire) che riscrivere i “Buddenbrook”, Buzzati non ha fatto altro che riscrivere “Il deserto dei Tartari”, operando infinite variazioni sul tema di fondo del “niente cambia, niente passa e tutto stanca”.

Difficile dire quale sia la variazione più bella, ma forse la si può individuare nel più grande reportage -perché il più fantastico, il più “inventato” e insieme il più realistico- scritto da Buzzati: il “Viaggio agli inferni del secolo”, pensato e realizzato durante i lavori di scavo per la costruzione della Metropolitana di Milano, a metà degli anni Sessanta. Il cronista-narratore Buzzati si finge inviato nelle viscere della terra per seguire i lavori e invece scopre l’inferno, ma scopre anche che l’inferno è normalissimo, perfino banale, identico alla vita quotidiana. Condotto da fantomatiche “diavolesse” all’ultimo piano di un altissimo grattacielo, in un’enorme sala a vetri con vista panoramica, il suo sguardo si posa sulla vita umana «nella mostruosa città, la quale era l’inferno». La visione, insieme magnifica e spaventevole, suscita una domanda talmente semplice, abissale e vertiginosa che bisogna porla due volte, quasi nella speranza che dopo il secondo punto interrogativo arrivi infine una risposta, un messaggio, una possibile salvezza o almeno una consolazione: «Vedevo le formiche, i microbi, gli uomini uno per uno agitarsi nella infaticabile corsa: a cosa? a cosa?».

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