Musica

Giorgio Gaber

Libertà e solitudine, a 85 anni dalla nascita

  • 25 gennaio, 12:00
  • 25 gennaio, 15:09
gaber
Di: Mattia Cavadini

Giorgio Gaber nasce il 25 gennaio 1939 a Milano e attraversa la musica italiana con un’originalità senza pari, inaccessa ai suoi colleghi cantautori. Partito da dove sono partiti tutti, dalle balere e dai cabaret milanesi, dal rock’ n’ roll e dalla televisione sanremese, Gaber approda in solitaria al teatro canzone.

Serata evento a dieci anni dalla morte - Archivi RSI 2012

RSI Dossier 27.12.2012, 01:00

Figura complessa e difficile da circoscrivere, Gaber transita dai toni leggeri de La ballata del Cerutti Gino a quelli del movimentismo e del collettivismo civile, per approdare infine all’antipolitica e al disincanto più radicale. Un itinerario filosofico multiforme, messo in scena però sempre dalla stessa figura: un attore magnetico, che calca le scene in modo dinoccolato, con un ghigno sardonico stampato sul volto, la faccia di chi sa dire con fermezza verità sconcertanti, capaci di smascherare le patologie dell’uomo moderno, confrontato con una strisciante omologazione e con ideologismi di cartapesta.

Intervista su "Io, se fossi Gaber" - Archivi RSI 1985

RSI Dossier 07.09.2016, 09:51

Snodo fondamentale, nell’itinerario di Gaber, si rivela negli anni 70 la scelta di calcare il teatro. Scelta che lo porta a rompere con il mercato discografico e a trasformarsi nel Signor G: cantante-attore, capace di un magnetismo e di un’energia sconvolgenti, che si avvale non solo del talento vocale ma anche della gestualità del corpo (flessuoso) e della straordinarietà della mimica facciale (munita di un naso dalla forza straniante). Grazie alla stima di Paolo Grassi e Giorgio Strehler, Gaber porta il teatro-canzone sul palco del Piccolo di Milano. I suoi spettacoli diventano dei riti collettivi. Sono gli anni Settanta: Gaber canta canzoni politiche e partecipative (La libertà, Un’idea) e non esita ad usare il pronome noi, pur avvertendo una condizione di solitudine difficile da spezzare. Condizione che diventerà dominante a partire del 1978, con lo spettacolo Polli di allevamento, in cui Gaber si distanzia rabbiosamente da qualsiasi associazionismo e movimentismo politico, da lui descritti come ipocriti, illusionistici e modaioli (si ascoltino, in questo senso, Quando moda è moda e La magnifica illusione).

Omaggio a 5 anni dalla morte - Archivi RSI 2008

RSI Dossier 04.08.2016, 11:38

La rottura con la politica si consuma in modo definitivo nel 1980, allorché porta in scena Io se fossi Dio: monologo in cui Gaber non lascia scampo a niente e a nessuno. Scritto all’indomani della strage di via Fani, il cantante denuncia la doppia morale di tutti i partiti e di tutti i governi, del potere e degli antagonisti, di Moro e delle BR. A partire da questo spettacolo Gaber bandisce dai suoi testi il pronome noi e passa all’io, incentrando la sua riflessione sull’irriducibilità della solitudine. Accusato di tradimento da parte di chi ha fatto del conformismo ideologico il proprio credo esistenziale, Gaber scrive canzoni splendide, percepite come reazionarie, come Il dilemma: canzone che parla di fedeltà, di famiglia e di amore. E sarà proprio l’amore ad apparire a Gaber come la sola forza in grado di far breccia nella solitudine, di aprire l’io al tu, al di qua degli ideologismi e delle rivoluzioni: «Come posso parlare di rivoluzione, Vietnam, Cambogia se non so parlare di “Maria”, della realtà di un rapporto, di una persona?» (in Chiedo scusa se parlo di Maria).

Gaber per sempre (intervista di Michela Daghini) - 2012

RSI Dossier 26.12.2012, 01:00

Lettore entusiasta di Celine e Pasolini, a partire dagli anni Novanta Gaber canta la sofferenza di chi si sente estraneo alla società, cannibale e crudele nella sua furia omologante. Società cui Gaber chiede di esentarsi dal suo ruolo educativo, troppo spesso sbagliato e nocivo: «Non insegnate ai bambini la vostra morale / è così stanca e malata / potrebbe far male». Le sue canzoni, lontane da qualsiasi forma di condivisione o partecipazione, usano ormai solo il pronome io. Ciononostante nascondono una storia collettiva, che coinvolge tutta una generazione di persone che ha visto disintegrarsi i propri ideali e che si ritrova con lui a gioire unicamente di un’illogica allegria (forse la sua canzone più bella). Perché in fondo, di fronte ad un mondo malato, la sola allegria possibile è quella che si prova dentro se stessi, inaspettatamente, illogicamente, nelle prime luci del mattino: l’allegria di andare avanti, di vivere, respirare e sorridere al nuovo giorno. Non importa se si rischia di essere tacciati di individualismo o anarchismo. Si tratta in fondo, semplicemente, di compiere il proprio destino.

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