Società

Medicina temeraria

Quando il medico sperimenta su di sé

  • 05.06.2023, 00:00
  • 31.08.2023, 12:04
Silvia Bencivelli, Storie di medicina spericolata

di Silvia Bencivelli, giornalista scientifica

Ogni tecnica e procedura medica, ogni farmaco e ogni intervento chirurgico, prima di arrivare nei nostri ospedali deve essere stato sperimentato sul corpo di qualcuno. In molti casi, quel qualcuno è stato lo stesso scienziato che ha avuto l’idea, contemporaneamente inventore e cavia di una nuova pratica medica. È la storia degli autoesperimenti: centinaia, forse migliaia, di esperimenti in cui qualcuno ha misurato, bevuto, mangiato, inalato, iniettato o insufflato qualcosa di nuovo all’interno del proprio corpo. In molti casi non è successo niente, qualcuno ci ha lasciato le penne, qualcuno ci ha preso il Nobel. Sono arrivati così molti dei progressi scientifici che oggi ci permettono di sopravvivere alle malattie che fino a pochi decenni fa ci condannavano a vite brevi e mediamente non troppo felici.

La storia degli autoesperimenti propriamente detti comincia quando comincia la storia della medicina sperimentale, cioè con la Rivoluzione scientifica. I primi autoesperimenti definibili come tali avvengono a fine Cinquecento e coinvolgono persino il cosiddetto “padre della scienza moderna”, Galileo Galilei. È il suo amico Santorio Santorio a praticarli, come lui ispirato dal desiderio di misurare la natura ma guidato soprattutto da una grande domanda: che cosa succede al nostro organismo quando mangia e poi defeca, che cosa succede nel mezzo, di che equilibrio si tratta, e in ultima analisi com’è che questo scambio di “cose” tra noi e il mondo è alla base della nostra vita? Qualche tempo dopo, a queste domande daremo una risposta incentrata su un’unica parola: “metabolismo”. Ma per Santorio si tratta soprattutto di pesare: pesare un corpo prima e dopo un pasto e prima e dopo ogni passaggio dal gabinetto. Ragion per cui si costruisce un’enorme bilancia a forma di sedia, precisissima, con cui per trent’anni misura migliaia di volte studenti, amici, Galileo Galilei e ovviamente soprattutto se stesso.

Dopo di lui e più o meno fino agli anni Ottanta del secolo scorso, di autoesperimenti ne sono stati praticati tantissimi, in genere molto più pericolosi di questo. Nel corso del Settecento e poi all’inizio dell’Ottocento sono stati soprattutto esperimenti sulle sostanze, quelli che poi daranno origine alla farmacologia moderna. Situazioni in cui, tipicamente, il giovane scienziato, il farmacista di paese, il famoso chimico alle prese con la neonata fisiologia, assaggiavano sostanze estratte dalle piante e via via sempre più pure, modificate in laboratori via via sempre più tecnologici. È così che sono arrivati tra noi i primi veri farmaci della storia.

Si trattava di farmaci dedicati soprattutto all’attenuazione del dolore. E sempre la necessità di controllare del dolore ha guidato la nascita dell’anestesiologia a fine Ottocento, quando la possibilità di avere nuovi anestetici, combinata all’invenzione delle tecniche di antisepsi (dal semplice lavaggio delle mani all’introduzione di mascherine, camici, guanti, detergenti e disinfettanti), permetteva la rivoluzione della chirurgia.
Ma perché proprio il dolore? Intanto perché è stato sempre uno dei nostri peggiori problemi, e con lui siamo a lungo stati costretti a convivere nella parte dei perdenti. Di conseguenza, insieme alle malattie infettive, il dolore è stato anche uno dei principali bersagli della ricerca medica. Poi perché è l’ambito in cui l’autoesperimento funziona meglio: ti permette di avere una cavia docile, che non ti lascia a metà dell’esperimento, e che sa perfettamente che cosa riferirti e come. E che accetta il rischio di diventare dipendente da una nuova sostanza ma soprattutto quello di morire.

Nel corso del Novecento gli autoesperimenti sono andati via via declinando. Sono cambiati i metodi della ricerca medica, che ha cominciato a richiedere grandi numeri e buone statistiche, ed è cambiata l’etica medica. Gli ultimi autoesperimenti si sono svolti in situazioni di maggiore sicurezza: sono stati condotti dagli outsider della ricerca, oppure hanno avuto brutalmente scopo di propaganda. Cioè sono serviti a dire “guardate che bravo scienziato che sono: non vi propongo di fare niente che non farei a me stesso”.

Ed eccoci al punto: perché si sono fatti tanti autoesperimenti? La retorica della medicina preferirebbe appunto che la risposta fosse: perché è dovere di un buon medico non praticare ad altri niente che non si sia provato su di sé. Ma la realtà è che più spesso lo si è fatto per comodità, per risparmiare, per fare in fretta, per l’incapacità di fidarsi negli altri, per il desiderio di arrivare primo, per sfida, o perché costretto. Qualcuno lo ha fatto banalmente per curiosità, e qualcuno per ripicca o in un impulso di rabbia. E poi c’è chi non lo ha praticato affatto anche se oggi è protagonista di leggende a base di gesti audaci e generosi che ne fanno un mito per la scienza moderna. Sono leggende inventate e mantenute nei decenni da una comunità scientifica che, come tutti, ha anche bisogno di santi, martiri ed eroi. E se non li ha, semplicemente se li inventa.

Approfondimenti radiofonici sul tema si possono ascoltare in Alphaville dal 5 al 16 giugno. A cura della giornalista scientifica Silvia Bencivelli.

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