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Woke, woke, woke ....

Dal wokismo al wokewashing: quando la sensibilità si irrigidisce in protocollo e la diversità diventa etichetta

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Di: Mat Cavadini 

C’è un momento preciso in cui il cinema e la pubblicità hanno smesso di raccontare storie e hanno iniziato a impartire lezioni. Non è stato un colpo di stato, ma una lenta colonizzazione: la trama piegata al messaggio, lo slogan trasformato in catechismo. Il wokismo, nato come sensibilità verso le ingiustizie, è diventato protocollo estetico, un linguaggio obbligatorio che non ammette deviazioni. E così, invece di emancipare, anestetizza.

Il sociologo direbbe che siamo di fronte a un nuovo dispositivo di controllo sociale soft. Non più la censura esplicita, ma la prescrizione implicita: se vuoi essere accettato, devi mostrare di aderire al codice. Il film deve avere la sua quota di diversità, lo spot deve esibire inclusione. Non importa se la narrazione ne soffre, l’importante è che il prodotto comunichi virtù. È la logica del virtue signaling: non tanto cambiare la realtà, quanto segnalare di essere dalla parte giusta.

Il risultato è paradossale. Il supereroe non è più tormentato, ma compilato: rappresenta minoranze, combatte discriminazioni, cucina vegano e nel tempo libero salva il pianeta. Il cattivo, poveretto, chiede scusa prima di fare il male, per non risultare offensivo. La pubblicità non vende più scarpe, ma coscienza sociale; non propone biscotti, ma certificati di virtù. È come se ogni prodotto fosse un lasciapassare morale, un biglietto d’ingresso alla comunità dei giusti.

Dal punto di vista sociologico, questi eccessi rivelano una tensione profonda. Da un lato, la società cerca di ridefinire i propri valori collettivi, di includere chi è stato escluso. Dall’altro, la loro rappresentazione diventa performativa, superficiale, quasi caricaturale. Non è più la diversità vissuta, ma la diversità esibita. Non è più la sensibilità autentica, ma la sensibilità prescritta. E quando la norma diventa estetica, la creatività si piega, la narrazione si impoverisce.

Il pubblico reagisce in modo polarizzato. C’è chi applaude, vedendo finalmente riconosciute identità e istanze a lungo ignorate. C’è chi si ribella, accusando l’industria culturale di ipocrisia e di “cancel culture”. In entrambi i casi, il dibattito si sposta dal contenuto al codice: non si discute più se il film sia bello o lo spot efficace, ma se siano abbastanza woke. La qualità narrativa diventa secondaria rispetto alla conformità simbolica.

Eppure, il cinema e la pubblicità hanno sempre avuto una funzione sociale: raccontare, persuadere, creare immaginari. Il problema non è la sensibilità, ma la sua trasformazione in protocollo obbligatorio. Quando ogni storia diventa favola edificante e ogni spot sermone morale, il rischio è che la società perda proprio ciò che cercava: la complessità, la contraddizione, la libertà di rappresentare anche ciò che non è rassicurante.

In fondo, il vero ribelle oggi non è chi osa scandalizzare, ma chi osa raccontare senza checklist. Chi gira un film pensando alla trama, non al bilancino delle identità. Chi vende un dentifricio parlando di denti, non di emancipazione. Perché la vera inclusione non nasce dalla prescrizione estetica, ma dalla capacità di raccontare storie che risuonino, che sorprendano, che ci mettano di fronte alla realtà senza filtri.

E allora la via d’uscita non sta nel rifiuto della sensibilità, bensì nel suo radicamento autentico. Dare spazio a registi e creatori che incarnano davvero l’intersezionalità – non come protocollo estetico, ma come esperienza vissuta – potrebbe restituire al cinema e alla pubblicità la loro forza originaria: raccontare storie che nascono da vite plurali, da sguardi che intrecciano differenze (di genere, etnia, classe, orientamento sessuale, disabilità, ecc.) senza ridurle a slogan.

Non si tratta di compilare checklist, ma di aprire il campo a chi porta con sé la complessità delle identità multiple, delle contraddizioni quotidiane, delle tensioni reali. Solo così la rappresentazione smette di essere prescrizione e torna ad essere narrazione. In questo senso, l’intersezionalità non è un’etichetta, ma un metodo: un modo di guardare il mondo che accetta la molteplicità e la trasforma in immaginario.

Forse la vera emancipazione passa proprio da qui: dal permettere a chi vive la diversità di raccontarla, senza filtri né catechismi. Perché quando la voce è autentica, la storia non ha bisogno di virtù esibite: diventa essa stessa un atto di inclusione, capace di sorprendere, di emozionare e di restituire alla società la sua ricchezza di contraddizioni.

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Politicamente corretto

Laser 11.11.2024, 09:00

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  • Franco Brevini

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