Cinema

Questo mondo non mi renderà cattivo

Incontro con il fumettista romano Zerocalcare

  • 8 giugno 2023, 21:20
  • 14 settembre 2023, 09:02
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Questo mondo non mi renderà cattivo

  • Netflix
Di: Valentina Mira

"Mi squarciarono le gomme e io risposi a sgab(b)ellate
Ero gonfio ma cristo, quante je n’ho date - sempre troppo
poche"
I versi della canzone che dà il titolo alla nuova serie di Zerocalcare sono di Path, cantautore punk, da Anguillara con furore. La colonna sonora perfetta per una rissa.

6 episodi, 30 minuti l’uno, su Netflix dal 9 giugno 2023. Questo mondo non mi renderà cattivo è un inspiegabile salto di qualità per l’autore di Rebibbia. Inspiegabile perché il balzo tecnico, contenutistico e, in definitiva, narrativo non se lo aspettava nessuno. Non in un solo anno e mezzo. E questo anche tenendo conto del lavoro di 300 persone, 100 in più rispetto alla prima. Dentro c’è tutto quello che abbiamo sempre amato di Zerocalcare: un linguaggio che collega alto e basso, una colonna sonora che coniuga pezzi punk ingiustamente misconosciuti finora e canzoni più note (da Nothing’s gonna hurt you baby dei Cigarette after sex a Timebomb dei Chumbawamba, passando per Don’t look back in anger degli Oasis); c’è un Secco-Billy-Elliott che lancia una bomba carta dopo un arabesque e i biscotti Pan di Sberle, un produttore pippato e omofobo, il tutto condito da easter egg in abbondanza dal vaghissimo, e naturalmente ironico, sapore Acab (la citazione alla pagina satirica Facebook “Forze dell’ordine che indicano alla telecamera il luogo del misfatto” e don Matteo super amico della polizia). C’è, soprattutto, quella capacità di emozionare che stavolta è più consapevole, e ti tira quelle quattro-cinque staffilate al momento giusto costringendoti a singhiozzare dopo una risata, mentre ti rivedi in Sarah che passa da “quella che poteva fare tutto” a “quella che non ha potuto fare niente”. O in Cesare, su cui è giusto spoilerare il meno possibile, perché è un personaggio - in minima parte mutuato dal fumetto Scheletri - talmente sfaccettato e commovente da essere destinato a restare. Come la serie stessa, in realtà. Questo mondo non mi renderà cattivo è This is England, in Italia. Con un surplus di consapevolezza politica. Siamo sicuri che riceverà i giusti riconoscimenti internazionali. Nel frattempo, però, intervistiamo Michele Rech, in arte Zerocalcare, partendo da un argomento di cui si occupa nella serie: il linguaggio. Il suo non è sterilizzato ma consapevole, sembra aver trovato la sintesi perfetta.

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Togliamoci subito questo dente. La dittatura del politicamente corretto: esiste? In Italia ci sono sindaci che fanno saluti romani, ma a leggere i giornali la vulgata è quella per cui “non si può più dire niente”. È così?

Io ho l'impressione che esista una bolla effettivamente sensibile a certi argomenti che discute in maniera accesa su internet, ma che di fatto non determina nulla all'interno dell'industria dello spettacolo o della politica. Questo è un paese in cui si dicono le peggiori nefandezze e si rimane comunque nelle posizioni apicali senza nemmeno dover chiedere scusa. Le uniche persone che danno retta alle polemiche in rete paradossalmente sono quelle che in qualche modo sono già sensibilizzate.

Nella serie affronti un discorso complesso con grande delicatezza: parli di dipendenza. Netflix lo aveva già fatto con SanPa, che scatenò un dibattito su chi si propone come salvatore colmando necessità che qualcuno ha e di cui nessuno si è preso cura, ma a caro prezzo. Anche il tuo Cesare paga il “bisogno di disciplina” che palesa. I vuoti colmati dai narcisisti, a livello individuale e collettivo, sembrano in questo momento storico un argomento di cui la società ha bisogno di ragionare per non affidarsi a sedicenti “salvatori”. Hai qualche riflessione su questo?

Sono un grande esperto di vuoti, ma non conosco i modi sani per riempirli. Per questo tratto la cosa con i guanti e cerco di non dare mai giudizi. La mia via di fuga dai buchi miei non è stata la droga ma il lavoro, che non crea allarme sociale perché non vai a scippare nessuno ma è capace lo stesso di devastare vite e affetti, tuoi e di chi ti sta intorno.

Altro tabù che scandagli nella serie: il fascismo. Ci dicono che è morto, Michela Murgia ha definito questo governo fascista ed è stata trattata da pazza. Tu che dici, è morto o permaloso?

Il fascismo è un concetto così poliedrico che si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Il fascismo inteso come regime ovviamente è finito 80 anni fa, il fascismo inteso come attitudine, che Umberto Eco definiva Urfascismo o fascismo eterno, probabilmente non morirà mai ma è anche difficile da mettere a fuoco. Quello che mi sembra invece molto semplice da riconoscere è che ci sono delle persone che hanno il fascismo storico come punto di riferimento ideale e politico. Che si considerano in continuità con la storia e la cultura politica, del ventennio prima e del neofascismo dopo, e che sono a tutti gli effetti gli eredi di quella famiglia. A volte lo dicono in pubblico, a volte strizzano l'occhio a chi ne condivide i codici, a volte lo negano in maniera contraddittoria e confusa, a seconda delle occasioni e delle cariche ricoperte. Ma tutti loro si sentono parte di una comunità di destino che ha finalmente concluso una lunga traversata. Poi non penso certo che leveranno le elezioni: ci troviamo all'interno di una cornice istituzionale che è blindata dagli organismi sovranazionali, quella roba è intoccabile. Rimane da capire quando si può erodere, svuotare e pervertire quello che sta dentro quella cornice, che poi sono le vite delle persone.

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Nella serie è ricorrente il concetto di mostro mediatico. Se non sbaglio nel tuo percorso hai incrociato Valerio Marchi, è possibile che ti riferissi alla sua idea di folk devil?

Valerio Marchi ha messo a fuoco quel concetto di mostro mediatico che in qualche modo sta al centro delle varie emergenze e che è il “cattivo a tutto tondo”, una specie di male puro ingiustificabile attorno alla cui condanna si stringe tutta la comunità, ma che nutre la morbosa ossessione della stampa e dell'opinione pubblica. In questo senso questa serie parla anche di uno di questi mostri, ne descrive l'umanissima vita e motivazione, e prova a raccontare come essi stessi si facciano strumentalizzare, divorare e infine buttare da quegli stessi meccanismi che li pongono al centro dei riflettori.

Visto che parliamo di mostri che servono al potere. Sono un paio di settimane che in Italia si discute di un femminicidio di una donna incinta di 7 mesi, e la destra ha proposto di rendere il feto persona giuridica, quando in realtà esiste già il reato di interruzione di gravidanza non consensuale. Come lo vedi il fatto di usare un femminicidio contro l’aborto?

In generale cerco di non parlare al posto di altri, in questo caso di altre. Mi limito a dire che avevo seguito la vicenda piuttosto distrattamente, e nel vedere alcune dichiarazioni pensavo di essermi perso qualcosa, che forse si trattava di un duplice omicidio, di una donna e di un bambino. Quando ho capito che si riferivano alla gravidanza ho pensato che sicuramente questo rende il crimine ancora più odioso (ma poi esiste davvero una scala di odio?), che capisco l'impressione che può suscitare e la tentazione di cedere a una lettura emotiva del fatto, ma ci sono vari motivi per cui si è stabilito che la capacità giuridica si acquista alla nascita, e spostare indietro quell'asticella è molto pericoloso.

È stata uccisa una donna (ancora una volta). Cercare di rafforzare la questione con la storia del duplice omicidio mi pare suggerire che quella singola morte di per sé non sarebbe poi così grave o allarmante.

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Il tuo è un femminile per nulla stereotipato, sembri indagarlo in ogni opera. Camille e l’anoressia, Alice e la sua relazione tossicissima, per non parlare delle donne curde e di Sara. Tutte le tue donne sono combattenti. Non sempre vincono, ma sempre ci provano, cascano e si rialzano come gatti finché non finiscono le vite. Fight like a girl, recita un quadretto di Sailor Moon che ha Sara a casa. In questa serie però indaghi la mascolinità tossica.

In realtà salvo rarissimi casi io racconto le donne dall'esterno, dal punto di vista dell'osservatore, mi limito a mettere in scena quello a cui assisto, quello che mi viene detto o che vedo coi miei occhi, proprio perché non sono capace a mettermi nei panni di una realtà che comunque non vivo. Viceversa, i rapporti tra maschi sono quelli in cui sono cresciuto; fino ai 16 anni eccetto per la famiglia credo di aver vissuto proprio una specie di apartheid di genere. Anche adesso, i miei rapporti coi miei amici sono ancora impregnati di codici e legacci che senza dubbio rientrano nella mascolinità tossica. Ci sono alcuni aspetti che sono ridicoli e su cui mi piace pure scherzare, altri che invece sono l'anticamera delle vite rovinate, le proprie e quelle di chi si imbatte in loro. Cioè in noi. Non penso che nessun maschio italiano nato negli anni 80 possa dirsi completamente libero da quel retaggio.

Sui social molte e molti esponenti della GenZ commentano i tuoi post scrivendoti “mio padre”. Ti sei accorto di aver fatto da trait d’union tra i cosiddetti movimenti e almeno un paio di generazioni, evitando a un sacco di gente di cascare in mano ai fascisti che racconti? È una cosa bella, ma anche: com’è che non c’era dialogo tra movimenti e mainstream (quindi, in definitiva, masse)?

Ma io non capisco che significa sto “mio padre”, mortacci loro. Non ho l'età dei loro padri, credo. Mi fa impazzire. Comunque la verità è che io non credo di essere un trait d'union tra i cosiddetti movimenti e i ragazzini, per il semplice fatto che io stesso sono un dinosauro in via d'estinzione. Non so se riesco a parlare ai ragazzini e non so se esistono ancora i movimenti, mi pare di essere un individuo allo sbando che fa riferimento a un mondo che sta allo sbando anch'esso.

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In un’intervista a Chiara Valerio su Repubblica dicevi che “non c’è sentimento più rivoluzionario della vergogna”. Ma la vergogna è anche un freno, pensiamo alle donne che rompono silenzi su violenze subite. È davvero il sentimento più rivoluzionario?

Ci sta una vergogna negativa, che è quella cappa che ti viene cucita addosso dal giudizio collettivo e che ti fa stare in silenzio rispetto alle tue emozioni. Ma ci sta pure una vergogna positiva, che è il calmiere della mitomania. Quella che prima di aprire bocca ti fa chiedere se hai veramente titolo per dire quello che stai per dire, se non stai solo dando spazio al tuo ego ipertrofico. Ecco, quella vergogna mi pare la grande assente di questo secolo.

Nella serie hai rappato. Pensi che il fatto di aver costretto a rappare anche Valerio Mastandrea ti metterà al riparo dall’ormai arcinoto bullismo social dei tuoi amici?

No, però spero che i miei non la guardino.

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