Con queste parole Emilie Lieberherr, leader del comitato d’azione della marcia su Berna, rivendica, davanti a Palazzo federale, acclamata da una folla di 5000 manifestanti, il diritto di voto alle donne.
La marcia su Berna si tiene il 1° marzo 1969. Piazza federale viene invasa da donne e uomini inneggianti al suffragio femminile.
Il 7 febbraio 1971 il diritto al suffragio femminile viene sottoposto a votazione e accolto dal 65,7 per cento dell’elettorato (maschile). Ci vogliono però ancora 20 anni prima che esso venga introdotto in tutti i Cantoni (con Appenzello interno a fare da fanalino di coda).
E così 53 anni dopo la Germania, 52 dopo l’Austria, 27 dopo la Francia e 26 dopo l’Italia, la Svizzera accorda il diritto di voto e di eleggibilità alle donne.
Questo traguardo, invero tardivo, viene raggiunto grazie alle pressioni e alle rivendicazioni esercitate dalle associazioni femminili, le quali, per oltre cento anni, si sono mosse e hanno lottato per avere una voce e un volto all’interno della politica svizzera.
Una storia lunga un secolo
La prima rivendicazione viene avanzata dalle donne zurighesi nel 1868, in occasione della revisione della Costituzione cantonale – la richiesta di inserire il voto alle donne cade però inascolata. Questo primo grido trova la sua eco nel 1893, allorché un gruppo di donne lavoratrici, lo Schweizerischer Arbeiterinnenverband, chiede l’introduzione del suffragio e dell’eleggibilità femminile a livello federale – invano.
Sono queste le prime avvisaglie di una rivendicazione che lentamente entrerà nell'agenda delle correnti più progressiste del paese. Nel 1904 sarà il Partito socialista (PS) ad includere nel proprio programma il diritto di voto per le donne. Nel 1909 nascerà l’Associazione svizzera per il suffragio femminile (ASSF), che intercetterà le spinte associazioniste provenienti da numerose realtà locali (soprattutto urbane).
Nonostante il tema sia ormai nell’agenda politica, esso fatica a fare breccia tra l’elettorato maschile. Tra il 1919 e il 1921 si svolgono votazioni sul suffragio femminile a Ginevra, Neuchâtel, Basilea Città, Zurigo, Glarona e San Gallo: tutte si concludono con risultati negativi.
Nello stesso periodo vengono presentate in Consiglio nazionale due mozioni a sostegno del suffragio femminile. Le Camere trasformano queste mozioni in postulati, indebolendone l’efficacia, e nel 1919 li trasmettono al Consiglio federale, senza ottenere risposta. Stessa fine farà la petizione presentata nel 1929 dall’Associazione svizzera per il suffragio femminile (ASSF), firmata da 250mila persone (78 840 uomini, 170 397 donne).
Battuta d’arresto
La lotta per il diritto di voto alle donne subisce negli anni ’30 una battuta d’arresto: con la crisi economica e l’ascesa delle correnti politiche conservatrici e fasciste prevale un modello di società che vuole la donna relegata agli affari domestici.
Durante la Seconda guerra mondiale le associazioni femminili intensificano l’impegno nell’ambito dell’assistenza sociale nella speranza di ottenere il riconoscimento dei diritti politici. Ciononostante, nel 1940 sia a Ginevra che a Neuchâtel i progetti a favore del suffragio femminile in materia cantonale e comunale vengono nuovamente respinti.
Un popolo di fratelli senza sorelle
Nel 1948, durante le celebrazioni per i 100 anni della Costituzione federale, viene coniato il motto: “La Svizzera, un popolo di fratelli”. Le associazioni femminili svizzere riformulano il motto con “un popolo di fratelli senza sorelle” e presentano al Consiglio federale una mappa simbolica dell’Europa con una macchia nera al centro (all’epoca, infatti, tutti i paesi europei, ad eccezione della Svizzera e del Liechtenstein, avevano già introdotto il diritto di voto per le donne).
Nonostante il clima di entusiasmo e rinascita del dopoguerra, in Svizzera l’orientamento politico rimane conservatore. Alcuni cantoni e comuni tornano a votare sul suffragio femminile, ma con esito negativo (nel 1946 a Basilea Città, Basilea Campagna, Ginevra e Ticino; nel 1947 a Zurigo; nel 1948 a Neuchâtel e Soletta; nel 1951 nel Vaud).
Nel 1951 il Consiglio federale pubblica un rapporto in cui, considerate le sconfitte cantonali, reputa prematuro indire una votazione federale sul suffragio femminile. Solo in alcuni comuni di Basilea città, la questione sembra far breccia fra l’elettorato (come a Riehen, dove il 26 giugno 1958 le donne accedono alla vita politica).
Donne al servizio, ma non al voto
Nel 1957 il Consiglio federale presenta un progetto di inclusione delle donne svizzere nella difesa nazionale, progetto che prevede di imporre loro l’obbligo di servire nella protezione civile. Contro questo progetto si alzano le voci delle associazioni femminili. Obbligare le donne a nuovi doveri e a nuovi servizi, senza includerle attivamente nella vita politica, risulta offensivo e discriminatorio.
Per evitare di compromettere il progetto di legge sulla protezione civile, il Consiglio federale decide di sottoporre a votazione il diritto di voto alle donne. Prima della votazione il Partito socialista, l’Anello degli indipendenti e il Partito del lavoro si dichiarano favorevoli. Il Partito radicale democratico e il Partito cattolico cristiano-sociale optano per la libertà di voto, mentre il Partito dei contadini, artigiani e borghesi si pronuncia per il no. Il 1° febbraio 1959, il suffragio femminile è respinto con 654.939 voti contrari (66,9%) e 323.727 favorevoli (33,1%). Sono favorevoli soltanto i Cantoni di Vaud, Ginevra e Neuchâtel.
I Cantoni precursori
Il referendum del 1 febbraio 1959 ha il merito di rendere palese la grande disparità che sussiste fra le varie regioni, in particolare fra i cantoni urbani e quelli rurali. Si decide dunque di intraprendere la battaglia per il diritto di voto alle donne a livello cantonale.
Il primo cantone a garantire il suffragio femminile sarà il Canton Vaud, nel 1959, in concomitanza con la votazione federale, cui faranno seguito Neuchâtel (lo stesso anno) e Ginevra (nel 1960). Basilea Città si dichiara favorevole al suffragio femminile in materia cantonale e comunale nel 1966. Basilea Campagna e il Ticino seguono rispettivamente nel 1968 e nel 1969.
L’influsso del ’68 sulla conquista del 1971
Alla fine degli anni Sessanta, mentre in tutto il mondo i movimenti studenteschi animano le piazze nel nome di una società più libera e contro ogni discriminazione, il Consiglio federale decide di firmare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, escludendo il suffragio femminile. Le associazioni delle donne protestano a gran voce. E scendono in piazza, il 1° marzo 1969. La marcia su Berna coinvolge 5000 donne e uomini, che manifestano davanti al Palazzo federale, votando la risoluzione di Emilie Lieberherr a favore del suffragio femminile.
Il clima sociale sta cambiando. I movimenti transazionali di protesta si fanno sentire anche in Svizzera. In gioco non c’è più solo il diritto di voto per le donne, ma una rivoluzione culturale che coinvolge altri temi: l’aborto, la sessualità, la corporeità, la ridiscussione dei ruoli di genere… In questo nuovo clima, l’adesione popolare al suffragio femminile appare ormai scontata e nessun partito vuole giocarsi il voto delle future elettrici.
Il Consiglio federale decide pertanto di sottoporre celermente a votazione popolare un nuovo referendum.
Il 7 febbraio 1971 – dopo oltre 100 anni di lotta del movimento femminile – le donne svizzere ottengono finalmente il diritto di voto. Gli elettori accettano il referendum con il 65,7 per cento di sì contro il 34,3 per cento di no.
Dopo il 1971
Il 1971 è l’inizio di una conquista ancora incompleta.
Per restare nell’ambito elettorale, occorrerà infatti aspettare 20 anni prima che il suffragio femminile venga accettato in tutti i cantoni. Particolarmente riottoso si manifesterà Appenzello Interno, dove sarà necessaria un’imposizione del Tribunale federale: il 27 novembre 1990 la Corte sentenzierà infatti che anche in questo Cantone le donne "possono, da subito, esercitare il diritto di voto".
Ma la battaglia per la parità fra i generi non si limita solo all’ambito elettorale. È una battaglia culturale, che si fa promotrice di una realtà sociale in cui la donna non sia relegata ad un ruolo subalterno e sudditante.
Una realtà che è lungi dall'essere realizzata, come dimostrano alcuni dati, che sono specchio di una realtà che è ancora oggi retaggio di una visione patriarcale e sessista del mondo: innanzitutto le ingiustizie e le disparità salariali; in secondo luogo la scarsa presenza delle donne non solo nella politica, ma più in generale nei gangli del potere; in terzo luogo la loro marginalità nei dibattiti pubblici e politici; infine, ed è il dato peggiore, il loro essere vittime di molestie, offese e femminicidi.