Dai dadi dell’antica Roma alle carte collezionabili Pokémon, dai cruciverba ai videogiochi, il gioco accompagna l’umanità come un’ombra luminosa, riflettendone sogni, paure, ideologie. Non è solo passatempo: è linguaggio, rito, pedagogia. Come afferma Selim Krichane, direttore del Museo Svizzero del Gioco, intervistato da Letizia Bolzani nella rubrica Laser, «il gioco è un’esperienza, una pratica». Non basta osservarlo: bisogna viverlo. Con Selim Krichane Letizia Bolzani ha visitato il museo offrendoci un viaggio intrigante nell’universo ludico, dall’antichità ai giorni nostri. Questo il resoconto.
Non c’è vita senza gioco
Laser 03.11.2025, 09:00
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Il gioco è il primo laboratorio sociale dell’essere umano. Nel gesto ludico si apprende la regola, si sperimenta la libertà, si costruisce l’altro. Giocare è sospendere il tempo dell’utile per entrare in quello del possibile. È simulare la vita per comprenderla meglio. Non a caso, pedagoghi come Piaget e Vygotskij hanno posto il gioco al centro dello sviluppo cognitivo e relazionale.
Ma il gioco è anche specchio della società che lo genera. Ogni epoca ha i suoi giochi emblematici, che ne riflettono valori e contraddizioni. Il Monopoly, ad esempio, nato negli USA all’inizio del Novecento, è figlio del capitalismo, ma anche sua critica. Ideato da Elizabeth Magie per promuovere la tassa unica di Henry George, fu poi commercializzato da Charles Darrow, che ne oscurò l’origine femminile. Un gioco che, nella sua genealogia, racconta disparità di genere e tensioni economiche.
Eppure il Monopoly non è statico: si adatta, muta. Le versioni nazionali ne rivelano le stratificazioni storiche. In Italia, alcune edizioni riportavano strade legate al regime fascista, poi modificate nel dopoguerra. Il tabellone diventa così documento, mappa politica, memoria urbana.
Anche il cruciverba, apparentemente innocuo, ha avuto momenti di inquietante rilevanza. Durante la Seconda Guerra Mondiale, alcuni indizi sospetti nei puzzle inglesi fecero temere un uso spionistico. Un equivoco, forse, ma rivelatore del potere evocativo del gioco.
Con l’avvento del digitale, il gioco si è fatto codice, algoritmo, simulazione. Tetris, nato in Unione Sovietica, è diventato icona globale, ma la sua diffusione in Occidente fu segnata da intrighi e tensioni degni di un romanzo di Le Carré. Il gioco, da semplice passatempo, si trasforma in oggetto geopolitico.
Eppure il gioco non si limita a riflettere: può anche trasformare. I giochi contemporanei affrontano temi come l’ecologia, la sostenibilità, la cooperazione. Titoli come Wildlife, che negli anni ’60 proponeva la cattura di animali rari per profitto, oggi sarebbero impensabili. Al contrario, molti giochi attuali promuovono la cura dell’ambiente, l’empatia, la responsabilità.
Persino giochi antichi come i Mancala africani, risalenti a 1500 anni fa, contenevano già una dimensione etica: non si poteva affamare l’avversario. Un principio che oggi chiameremmo sostenibilità, ma che allora era già inscritto nel gesto ludico.
Il gioco è anche motore di innovazione. Il cubo di Rubik, nato dal genio di Ernő Rubik, è diventato icona del design e stimolo per la mente. I giochi di ruolo come Dungeons & Dragons hanno aperto nuove frontiere narrative, influenzando cinema, letteratura, persino la psicologia.
In definitiva, il gioco è un prisma attraverso cui osservare la società, ma anche un motore che la spinge oltre. È specchio e seme. Come scrive Johan Huizinga, l’uomo è Homo ludens: colui che gioca. E nel gioco, forse, si cela la chiave per comprendere — e reinventare — il nostro mondo.




