Società

Visioni climatiche

Tra scienza, ingiustizie sociali e scelte politiche

  • 15 November 2022, 23:00
  • 14 September 2023, 09:30
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Di: Clara Caverzasio

«Siamo a un bivio, le decisioni che prendiamo adesso possono assicuraci un futuro vivibile. Abbiamo a disposizione tutti gli strumenti per ridurre il riscaldamento globale”… occorre spingere sulle rinnovabili».

È quanto sostengono gli esperti dell’IPCC, Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, nel rapporto pubblicato in occasione della ventisettesima Conferenza sul clima (COP27) a Sharm el-Sheikh.

COP, obiettivi sempre più lontani

SEIDISERA 08.11.2022, 18:33

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La scienza ha fatto e sta facendo la sua parte – e i negazionisti hanno ormai vita difficile a fronte degli stravolgimenti climatici che hanno colpito moltissimi paesi nel mondo, soprattutto nel corso di questa estate: calure da record, incendi, inondazioni, eventi estremi.

Di fatto l’appello degli esperti dell’IPCC non si discosta molto da quanto la scienza ci dice da decenni, con ormai centinaia di studi incontrovertibili: già cinquant’anni fa infatti con le loro proiezioni gli scienziati ci mettevano in guardia su quanto poi sarebbe successo, e di cui oggi siamo tutti testimoni, perché il cambiamento climatico non è più confinato in remote zone del pianeta ma è di casa anche da noi.

Ma ad andare in scena in Egitto non è tanto il punto di vista della scienza, quanto piuttosto il nodo del rapporto tra Nord e Sud del mondo, e con esso lo scontro tra due visioni contrapposte del cambiamento e in particolare del riscaldamento climatico. Visioni che mettono in luce il rischio che nella nostra parte di mondo le innovazioni scientifiche e tecnologiche possano rappresentare in un certo senso un pretesto per chiamarci fuori – noi comuni cittadini ma anche e soprattutto per i governi. Lasciando che il problema venga percepito come squisitamente tecnologico, e venga demandato alla sola tecnologia.

Di questa contrapposizione tra Nord e sud ci parla lo scrittore indiano Amitav Ghosh, che abbiamo incontrato in Ticino qualche mese fa e di cui riportiamo qui parte dell’intervista.

Da tanti anni sto riflettendo sui modi in cui noi, nel mondo, pensiamo ai Cambiamenti climatici e su come andrebbero considerati e narrati. Quella del Cambiamento climatico è una tematica che nasce nelle università o nei think tank occidentali, i quali trattano la questione come fosse un ambito specialistico, dove la specializzazione è correlata alla scienza e alla tecnologia; e questo crea un profondo gap, un grande malinteso. Mi spiego meglio: in Occidente il cambiamento climatico è percepito come un problema scientifico o tecnologico. Ma se lei va in un qualsiasi posto del Sud del mondo e parla di cambiamento climatico, riceverà una risposta completamente diversa: che sia in India in Indonesia o in Cina, in qualunque altro posto, la prima cosa che le diranno è che “il cambiamento climatico è creato dalle nazioni più sviluppate, paesi che colonizzando i nostri paesi che erano poveri e fragili sono diventati ricchi, e che hanno sfruttato e depredato il pianeta fino ad ora, inquinandolo e devastandolo; adesso tocca a noi poter usare le risorse del pianeta”. E questo lo sente dire ovunque nel mondo. Quindi, vede, il cambiamento climatico, al di fuori dell’Occidente, non è visto come un problema tecnologico o scientifico ma come un problema geopolitico, una questione di ingiustizia sociale, e questo crea un divario molto profondo nella percezione della questione. E anche quando gli scrittori occidentali scrivono dei cambiamenti climatici, pensano che arriverà il giorno in cui la gente, in India per esempio, magari a fronte di ondate di calore estreme si solleveranno contro l’industria dei carbonfossili. Ciò che non capiscono è che non sarà così. Torno ora dall’India dove ci sono state delle ondate di calore da record, ma l’ultima cosa che gli indiani pensano è che questo riscaldamento sia dovuto alle industrie dei carbonfossili. Semmai quel che può succedere nei paesi del sud è che rivolgano la loro rabbia contro l’ambasciata americana o canadese, e non contro l’industria dei carbonfossili.

L’idea di piazzare l’essere umano al centro della storia è stata inaugurata con la modernità, che ha introdotto un certo tipo di pensiero nato in Europa nel XVII secolo. Se si guarda alla narrativa precedente a quel periodo, sia in Europa che in altre parti del mondo, pensiamo all’Odissea, l’essere umano non è mai stato esclusivamente al centro: ci sono così tanti tipi di personaggi ‘non umani’ nella storie narrate un po’ ovunque nel mondo. È solo con l’avvento della modernità che le altre ‘voci’ sono state marginalizzate.

Le diverse percezioni del problema – la nostra, tecnologico-scientifica, e quella del resto del mondo, geopolitica e sociale – secondo Ghosh non colgono però il vero nodo della questione, che secondo lui riguarda i rapporti tra gli uomini, ovvero il modo in cui interagiamo tra di noi e soprattutto il modo in cui noi non teniamo mai conto degli altri esseri viventi sul pianeta, considerati una realtà, una merce al nostro servizio, di cui servirsi a piacimento.

Per lo scrittore e antropologo indiano non possiamo più limitarci a raccontare storie come se il mondo si riducesse solo agli uomini, come se la Natura fosse una cosa fuori di noi, che è lì, al nostro servizio, perché questa è la base della visione utilitaristica e meccanicistica del pianeta, e della conseguente narrativa su una crescita illimitata, inaugurata dal colonialismo e perfezionata poi dal capitalismo: una storia di conquista e sfruttamento, in cui, secondo Gosh, affondano le radici della crisi climatica odierna. È quanto illustra e denuncia nel suo ultimo bellissimo libro La maledizione della noce moscata. Una dinamica che andrebbe interrotta con decisione affinché la transizione energetica e il passaggio alle fonti di energia rinnovabile diventi l’occasione per superare l’eredità del colonialismo che continua a opprimere il sud del mondo.

Un’opportunità formidabile ma anche una prospettiva terrificante. È questa l’opinione dello scrittore e regista egiziano britannico Omar Robert Hamilton, che alla questione ha dedicato un lungo e approfondito articolo pubblicato sulla rivista Internazionale (nr. 1484 del 28.10.2022). Perché, scrive Hamilton, grazie alla tecnologia, l’energia oggi può senz’altro diventare sostenibile, ma poi occorre che nel mondo, là dove queste tecnologie vengono utilizzate, anche il potere lo sia.

«Impianti di energia rinnovabile si diffondono esponenzialmente riducendo i costi, e sul lungo periodo le cose possono andare in una sola direzione, dato che il capitalismo si sta lentamente accodando ai nuovi potenti. Una rapida transizione dei combustibili fossili potrebbe far collassare regimi autoritari dall’Angola all’Algeria, all’Azerbaijan. Oppure potrebbe essere il fondamento di un’epoca di grande potenza energetica rinnovabile, nazionale, centralizzata, per i governi e le multinazionali abbastanza veloci da adattarsi».

Come dimenticare infatti, continua Hamilton, che «Il potere dell’Occidente nel mondo si impose grazie alla forte spinta della rivoluzione industriale del capitalismo e del suo apripista, il colonialismo. È ovvio dunque che una nuova base su cui costruire la potenza energetica – solare eolica rinnovabile – potrebbe anche essere una base per un nuovo tipo di potere politico».

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Tra i tanti esempi che Hamilton riporta nel suo denso reportage c’è anche quello del paese in cui vive e dove è in corso il summit sul clima, l’Egitto, un paese dove quel poco di gradimento su cui il regime di al-Sisi può contare si basa sulla capacità di tenere le luci accese, ovvero su una vasta infrastruttura di centrali elettriche; infrastrutture su cui al-Sisi ha investito moltissimo, memore del fatto che i Fratelli musulmani non riuscirono a rimanere al potere anche a causa delle continue interruzioni di corrente. Un investimento in tecnologie occidentali che consente al suo paese di produrre il 50% di energia in più di quella che consuma.

«Un potere dunque costruito attraverso l’infrastruttura ed espresso sotto forma di elettricità. Nella rete elettrica egiziana si può leggere una manifestazione concreta del potere come combinazione fortemente centralizzata e corrotta di tecnologia straniera e strumenti nazionali obsoleti. (…) E visto che il potere politico moderno si basa sulla potenza energetica, si sostiene grazie al controllo di questa potenza e si arricchisce e legittima esportandola, allora la questione della transizione energetica diventa di gran lunga più complicata per chi vive sotto regimi autoritari. Se il mondo deve passare a nuovi sistemi di potenza energetica potrà anche adottare nuovi sistemi di potere politico?».

Allo stesso modo si pone la questione dei risarcimenti climatici che sono al centro dei negoziati della COP27, o quantomeno in agenda, il cosiddetto Loss and Damage: denaro per risarcire i danni e le perdite già subiti, e per adattarsi alle conseguenze della crisi. Hamilton infatti solleva la questione non secondaria di come progettare un sistema di risarcimenti che non rafforzi i regimi autoritari. In modo che la transizione energetica possa portare, nel mondo, a una società sostenibile non solo dal punto di vista delle emissioni di carbonio, ma anche dal punto di vista del potere politico; e soprattutto, perché questa COP27 non diventi solo «un’opportunità per l’ambientalismo di facciata e gli speculatori, mentre paesi e aziende fanno la fila per firmare accordi per installare impianti energetici con una dittatura che ha un surplus di energia e prigionieri politici».

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