Filosofia e Religioni

Con gli occhi degli altri

Le «Lettere persiane» di Montesquieu

  • 30 aprile 2021, 00:00
  • 14 settembre 2023, 09:27
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Di: Mattia Mantovani

Forse non sarà il «libro perfetto» e la «cosa più elegante che sia mai stata scritta», come lo aveva entusiasticamente definito uno dei suoi lettori più avvertiti e ammirati, Paul Valéry, ma senza dubbio si avvicina alla perfezione e non è lontano dal massimo dell’eleganza. Molti, non a caso, lo hanno amato, moltissimi lo hanno imitato, ma nessuno è riuscito a raggiungere la grandezza, la profondità e la limpidezza dell’originale. E in ultima analisi neppure la sua ironia, la sua squisita leggerezza, il suo divertissement tanto più godibile perché profondamente permeato di una serena malinconia e della percezione della tristezza immanente a ogni cosa umana.

Le “Lettere persiane” di Charles-Louis de Montesquieu possono insomma essere paragonate -non per la voluminosità, ma piuttosto per l’impatto e i contenuti- alla “Divina Commedia”, al “Don Chisciotte” e al “Faust”, ma con una sostanziale differenza: mentre le altre tre opere riassumono e chiudono una stagione e un’epoca (o comunque una parte di essa), il capolavoro di Montesquieu ha aperto la grande stagione dell’Illuminismo e ha inaugurato un modo di articolare il pensiero che tutto sommato, pur se con qualche ammaccatura, si è conservato fino ai nostri giorni.

«Le navi, in linea di principio, sono tutte buone, il problema sono gli uomini che ci stanno dentro», dice il vecchio lupo di mare Singleton ne “Il negro del Narcissus” di Joseph Conrad. E’ una verità che vale per molte faccende di questo basso mondo, e in ultima analisi vale anche per l’Illuminismo, che talora si è pervertito in un culto idolatrico della Ragione, ma nella sua connotazione originaria (l’uscita dell’essere umano dalla condizione di “minorità intellettuale”, come la definì Immanuel Kant) rimane una delle poche utopie che hanno trovato una plausibile realizzazione. Perché malgrado tutto, anche se troppo spesso le utilizziamo male o perfino inconsapevolmente (scambiando ad esempio laicità e ateismo, che sono due cose completamente diverse), le nostre attuali categorie di pensiero continuano ad essere quelle fissate dall’Illuminismo. E l’Illuminismo è nato ufficialmente proprio con le “Lettere persiane”, esattamente tre secoli fa, nel 1721, quando il libro venne pubblicato ad Amsterdam.

Un amico dell’autore, Padre Desmolet, intuendone il valore e la portata, commentò l’uscita con queste parole: «Cela sera vendu comme du pain». Il libro, in realtà, non è mai mai andato a ruba, anche se nei primi anni dopo la pubblicazione ne furono stampate varie edizioni (alcune perfino contraffatte), ma ha esercitato un influsso profondissimo, al punto che tre secoli dopo possiamo e dobbiamo considerarlo come un “manuale d’uso”, se così lo si può definire, al quale è necessario attingere per pensare con la propria testa e per non accettare l’esistente come unico orizzonte possibile. E, non da ultimo, per relativizzare il nostro personale approccio alla realtà. La “realtà”, infatti, comunque la si voglia circoscrivere e definire (e ammesso che si possa farlo), non è soltanto quella che vediamo coi nostri occhi, ma è anche -e soprattutto- quella che gli altri vedono coi loro. E’ vero che ogni luogo può essere il centro del mondo Ma, appunto, ogni luogo, non solo il nostro.

Con gli occhi degli altri, quindi. L’originalissimo espediente narrativo e il mutamento prospettico (il “regarder en persan”, come lo definì lo stesso Montesquieu) sono annunciati già nel titolo: le “lettere” in questione sono infatti quelle che i due viaggiatori persiani Usbek e Rica, giunti in Francia alla fine del regno del Re Sole (perché curiosi del diverso, e non contenti di essere illuminati dalla sola «luce d’Oriente»), inviano in patria per raccontare usi e costumi del paese che li ospita. Montesquieu, dal canto suo, con un procedimento che in seguito verrà variamente ripreso e declinato (basti pensare a Borges), si nasconde e insieme si svela nei panni del copista e traduttore, che prima ricopia le lettere dei due viaggiatori persiani e poi le volge in francese, limitandosi a qualche lieve intervento filologico per «adattarle ai nostri costumi».

Il segreto di quest’opera, tre secoli dopo, è sempre lo stesso, ed è un segreto semplicissimo: ci siamo noi così come ci vediamo (o pensiamo di vederci), e ci siamo noi così come ci vedono gli altri. E’ la relatività di ogni prospettiva e conseguentemente di ogni giudizio, forse la più grande acquisizione dell’Illuminismo, che nelle “Lettere persiane” trova appunto la sua prima espressione. La Francia vista dai persiani, infatti, non è la stessa Francia vista e vissuta dai francesi, ma è piuttosto un paese visto e inquadrato in virtù di uno straniamento che a sua volta provoca una suggestiva commistione dei generi, di modo che l’opera finisce per situarsi a mezza via tra il romanzo epistolare e la satira di costume, il pamphlet politico e la “féerie” intesa come “pantomima”, con l’idea davvero modernissima della vita quale gioco delle apparenze e traffico sociale fatto di ritualità e ovvietà che quasi sempre nascondono il nulla e il vuoto delle parole e dei pensieri.

Questa polifonia dei generi confluisce e si risolve in una cosiddetta “autobiografia obliqua”, perché i due persiani Usbek e Rica sono in realtà altrettante proiezioni di Montesquieu. Ed è proprio in virtù di questa dialettica di nascondimento e svelamento che lo stesso Montesquieu riesce a tracciare un ritratto preciso e impietoso della propria epoca. La sua penna, infatti, non risparmia niente e nessuno, ma sempre con un ironico sorriso: una certa compiaciuta aridità del sapere, l’autoreferenzialità della cultura, la fatuità modaiola e salottiera, le ipocrisie e i pregiudizi di cui si nutre l’eterno baraccone della società. E infine la Ragione stessa, che il futuro autore de “Lo spirito delle leggi” descrive in tutte le sue enormi conquiste ma anche, con incredibile lungimiranza, nella sua pressoché inevitabile crisi. Poco meno di quarant’anni fa, in occasione di un celebre discorso tenuto alle Giornate Letterarie di Soletta, un grande scettico illuminista come Max Frisch aveva preso atto dell’irreversibile decadenza della Ragione, sostenendo che “alla fine dell’Illuminismo c’è il vitello d’oro”. Oggi sappiamo che alla fine dell’Illuminismo -e oltre lo spirito delle leggi- non c’è soltanto il vitello d’oro, ma anche il pervertimento della democrazia rappresentativa in mera rappresentazione. Ecco perché dietro lo squisito divertissement di Montesquieu, finto “persiano”, si nascondono un’inquietudine e un disorientamento che sono sempre più nostri.

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