Letteratura

«Non sembran neanche poesie»: Raffaello Baldini e Paolo Nori

Intervista allo scrittore italiano, finalista al Premio Strega 2025 con il suo ultimo romanzo “Chiudo la porta e urlo”. Che forse non è neanche un romanzo

  • Ieri, 13:03
  • Ieri, 14:30
Paolo Nori - Imago.jpg
  • IMAGO / Pacific Press
Di: Michele R. Serra 

Paolo Nori sembra divertirsi. Non so se sia davvero così, ma sembra.
Lo scrittore emiliano è alla prima candidatura al premio più importante del panorama letterario italiano, lo Strega, e pochi giorni fa ha mandato a chi lo segue una newsletter che raccontava il piano per vincerlo, ordito da suo fratello Emilio. L’idea è che il fratello lo “tiri sotto con la macchina”, così da provocare un’ondata di solidarietà che porti Paolo a scalzare Andrea Bajani dalla testa della classifica dello Strega (attualmente, Bajani conduce con 280 voti contro 180).
Insomma, dicevo: non so se Nori si diverta davvero, lui, ma senza dubbio scrive cose divertenti. Ed è molto divertente anche il romanzo (che non sembra un romanzo – altro su questo argomento, più giù) per il quale è candidato, appunto, allo Strega. Si intitola Chiudo la porta e urlo, e racconta la vita di Raffaello Baldini, immenso poeta romagnolo.
È la terza volta che Nori scrive di una sua ossessione letteraria: prima è arrivato Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij, poi Vi avverto che vivo per l’ultima volta. Noi e Anna Achmatova. Anche questa volta, si raccontano insieme vita e opere dell’autore oggetto dell’indagine, e storie personali di Paolo Nori. Tutto mischiato dentro micro-capitoli brevissimi, fulminanti. Proprio come aveva fatto con Dostoevskij e con Achmatova. Sembra quasi che ci sia un metodo, di cui ho chiesto conto a Paolo Nori, in una pausa del tour dello Strega. Ero convinto che mi avrebbe raccontato come funziona il “metodo Nori”. Invece mi sbagliavo, e lui ha risposto, lapidario: «No, non c’è un metodo».
Sono rimasto interdetto per un attimo, poi per fortuna ha continuato lui: «Tempo fa, non mi ricordo chi, aveva scritto che quando cominciava a scrivere romanzi era come un palombaro che si buttava nel mare. È un po’ quella roba lì: c’è l’oceano Baldini, uno deve trattenere il fiato e buttarsi, e trovare poi delle cose lì dentro da raccontare, senza però una scaletta o cose del genere. Io perlomeno lavoro così, nel caso di questi ultimi romanzi: rileggo tutta l’opera dell’autore in questione, e quando ci sono, le biografie. Nel caso di Baldini, non ci sono, quindi ho incontrato le persone che l’han conosciuto e mi sono fatto raccontare un po’».

11:36

“Chiudo la porta e urlo”

Alice 14.06.2025, 14:40

  • mondadori.it
  • Michele R. Serra

Dunque. Incipit di Chiudo la porta e urlo, che tra l’altro riprende la stessa citazione di Baldini che lei metteva all’inizio di Sanguina ancora: «‘La battaglia contro la coglionaggine comincia da se stessi’ scrive Raffaello Baldini. Lo scrive in un monologo, che si intitola La fondazione. E a me viene in mente quel che dice Ricky Gervais, che quando sei morto tu non lo sai, è doloroso solo per gli altri. La stessa cosa, dice, succede quando sei stupido. Ecco. Cominciamo pure.»
Questo incipit l’ha aggiunto alla fine, o è stato davvero il punto di partenza per questo libro?
È stato l’inizio, ho cominciato proprio da quella cosa lì. Cioè, Baldini parla di tutto, c’è l’universo nelle poesie di Baldini… ma due temi sono molto ricorrenti: la stupidità, che lui chiama appunto «coglionaggine», e la morte. Lui ha cominciato a pubblicare a più di cinquant’anni, e a mano a mano che si va avanti la voce della morte diventa sempre più forte, nella sua poesia… Riguardo all’incipit, mi sembrava che quella frase fosse una sintesi ammirevole di quel che succede, di alcune cose che succedono nel nostro presente. Mi sembrava che valesse la pena cominciare da lì.

Raffaello Baldini scriveva in dialetto e poi si traduceva da solo in italiano. Cosa c’è di unico in quel suo dialetto romagnolo?
Se uno me lo chiedesse, cosa c’è, di unico... direi che non lo so, perché io non conosco il dialetto di Santarcangelo di Romagna… sono emiliano, e quindi non lo conosco bene. Però le poesie di Baldini non sono poesie dialettali, perché Baldini produce due originali: produce le poesie in dialetto, e poi le riscrive in italiano. Io le leggo in italiano, pur avendo la possibilità – che tutti hanno, tra parentesi, perché alcune poesie di Baldini si trovano su Spotify, lette da lui stesso – di sentire come suonano in dialetto… però anche in italiano hanno un suono, un significante, un significato, potentissimi. Sono a tutti gli effetti degli originali.
Una delle cose belle dell’italiano di Baldini è il fatto che è un italiano non gravato… da obblighi scolastici, diciamo. Baldini diceva: in dialetto non c’è nessuno che ti corregge, perché non ci sono i maestri del dialetto, e quindi è una lingua libera.
Io di solito lo leggo in italiano, però, per dire: c’è una poesia dove il protagonista e io narrante è uno che ha 52 anni e si è messo con una ragazza di 23 anni. In paese, insomma, è una cosa che ha fatto parlare molti. E lui dice: sì sì, capisco che ne parlino, però… lei è nuova, non ha neanche una piega. Ed è così bella la faccia di una ragazza di vent’anni che ha una faccia che non ha neanche una piega. Ecco, io ho una figlia che a ottobre compie ventun anni, e ha una faccia così, senza neanche una piega. E questa è un’espressione che ha origine in dialetto, ma anche in italiano funziona. Anzi, forse in italiano è ancora più potente, perché io non l’ho mai sentita dire.

A un certo punto di Chiudo la porta e urlo, lei scrive: «Ci son dei libri che son scritti così bene, in italiano italiano, damaschi ebani fiori tappeti e bronzi, che è come se non si vedesse niente. Le poesie di Baldini, mi sembra succeda il contrario.»
Cosa si deve vedere, idealmente, in un testo letterario? Cosa si vede nella poesia di Baldini? Cosa cerca di far vedere lei quando scrive?
Dunque, uno dei testi letterari più potenti che ho letto è Esercizi di stile di Raymond Queneau, dove si racconta una storia insignificante: uno che alla fermata dell’autobus vede un altro che ha un cappotto nuovo, che ha spostato un bottone, poi nello stesso giorno lo rivede su un altro autobus che litiga per un posto e poi scende in fretta. Questa storia stupida viene raccontata in 99 modi diversi. E cosa si vede? Si vede la potenza della retorica, ci si diverte.
In generale, la letteratura mi piace perché non ci sono regole. Cioè, se dovessi dare una regola: bisogna far così e così… subito mi verrebbe in mente un esempio di qualcuno che non ha fatto così come dico io, eppure ha costruito una meraviglia.
Nessuno poteva immaginare un romanzo come il primo libro della Trilogia della città di K. prima che Agota Kristof lo scrivesse. Oppure un’opera teatrale come Aspettando Godot prima che la scrivesse Beckett. Questi sono degli esploratori, che scoprono nuove terre. Quindi non è che si debba fare una cosa o un’altra.
Detto ciò, una cosa che io provo a fare quasi sempre, è: raccontare le cose come se le vedessi per la prima volta. Che è la lezione di Viktor Sklovskij in quel suo celebre articolo del 1917, che in italiano è stato tradotto con il titolo L’arte come procedimento: lì lui mostra, con degli esempi, che Tolstoj faceva così, raccontava le cose come se lui stesso non le conoscesse, come se le vedesse per la prima volta. Allungando la visione, rallentando il riconoscimento. E così facendo, le cose saltano fuori in un modo che ti colpisce.            
Questo è, come dire, un procedimento possibile, una tecnica che può aiutare. Però poi quello che si trova in quell’oceano di cui parlavamo all’inizio, quello non si sa. Cioè, quasi sempre uno che comincia a scrivere un romanzo, poi trova delle cose che non immaginava nemmeno. E anche leggendo succede: io nell’opera di Dostoevskij, della Achmatova, di Raffaello Baldini, pur avendo scritto i libri, avendo letto tutto, ho trovato ancora cose che non immaginavo.

Lei cita Lev Kulešov, uno dei pionieri del cinema sovietico, un maestro del montaggio. Anche in questo libro, il montaggio è importante. Chiudo la porta e urlo alterna storie sue, storie di Baldini, poesie... frammenti montati con un ritmo. Ha lavorato come nel cinema, scrivendo le scene separatamente e poi mettendole insieme, provando diverse soluzioni? Oppure tutti questi micro-capitoli li ha scritti semplicemente nell’ordine che vediamo?
Generalmente, scrivo di seguito. Comincio già con la numerazione che poi rimane: 0, 1, ma anche 1.1, 1.2, eccetera. Poi, certo, rileggo, metto a posto, tolgo delle parti, delle altre mi vengono in mente... Un momento molto bello per me è la revisione: momento in realtà molto impegnativo, quando hai finito il romanzo ed è il momento di rileggerlo. Perché se poi non ti piace, è complicato [ride].
No, a parte tutto, è quel momento dove ti aiutano, anche. Io lavoro con Alberto Rollo, col quale ci conosciamo da vent’anni, abbiamo fatto otto libri insieme. Quindi, io so che Alberto, se una cosa non funziona, lui me lo dice. Insomma: non sono solo, in questi momenti drammatici. Poi, una volta superato quel momento, il lavoro di revisione diventa un lavoro bellissimo, perché lì veramente prende corpo il libro definitivo… io, lì, mi diverto. Anzi, confesso che proprio mi diverto a rileggermi. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma mi piacciono le cose che scrivo, spesso. Ecco, io ho deciso – lo racconto ancora in questo libro – ho deciso nel ‘96 di mettermi a scrivere… e ho fatto proprio bene.

A proposito di cinema, lei scrive anche che la luce è molto importante nei romanzi. In che senso? Come si fa a decidere qual è la parola che illumina una frase?
Dipende dalla frase. La più celebre frase dell’Idiota di Dostoevskij in russo è Mir spasët krasota, e viene tradotta generalmente con: «La bellezza salverà il mondo». Però, nella frase russa, la bellezza – il soggetto – è alla fine, e il mondo è all’inizio. Quindi la luce, in questa frase in russo, viene dalla fine: tradurrei «Il mondo, lo salverà la bellezza» che a me sembra una frase più potente, perché «La bellezza salverà il mondo» ha un tono, come dire… sembra che sia un sacerdote, a dirlo. Invece «Il mondo, lo salverà la bellezza» mi sembra abbia dentro una sorpresa, una scoperta, cioè, il fatto che la bellezza salti fuori alla fine è davvero… per me che mi commuovo abbastanza facilmente, è commovente. È uno che sa, e che dall’alto della sua sapienza elargisce questa verità... che poi non è una verità, ma una scoperta stupefacente.

In un altro frammento di Chiudo la porta e urlo, dice che ha comprato una Playstation. Non si dovrebbe chiedere, ma: è vero? Gioca ai videogame?
Sì, sì, è vero, gioco a Fifa. Cioè, a quel gioco di calcio che una volta si chiamava Fifa. Quando ho iniziato non avevo mai giocato, quindi ero una schiappa assoluta. Adesso gioco a livello Leggenda, che è il penultimo…
A me piace. Io ho bisogno di una cosa che mi faccia perdere tempo. Perché io, quando ho cominciato a scrivere, la leva era la disperazione. E credo che per scrivere ho ancora bisogno di urgenza e di disperazione. Quindi lavoro bene quando sono molto stanco, quando non ce la faccio più, e quando ho fretta, quando sono in ritardo. La PlayStation mi aiuta a maturare ritardi dei quali ho bisogno per lavorare in un modo che mi sembra soddisfacente.

Alla fine del libro, si ringraziano «i tanti che mi hanno aiutato a scrivere questo romanzo che, mi rendo conto, non sembra neanche un romanzo, e non so se, in questo caso, sia un bene oppure no». Mi sembra un’osservazione molto contemporanea, perché i romanzi classici, i romanzi-romanzi, non li scrive più nessuno. Invece si pubblicano sempre più romanzi che non sembrano romanzi. E questo è un bene oppure no?
Allora, qui il discorso è un po’ complicato. Raffaello Baldini è considerato uno dei più grandi poeti del Novecento, però scrive delle poesie… singolari. Cioè, Ivano Marescotti leggeva in teatro le poesie di Baldini, no? E lui raccontava di una sera in cui, dopo uno di questi recital, una signora in Romagna è andata da lui e gli ha detto: «Guardi, mi sono così divertita, era così bello, ma così bello… Non sembravan neanche delle poesie». Ecco, poi Marescotti lui l’ha detto a Baldini, e quello ha risposto che era un grande complimento. Secondo me, è proprio così.
Io ho lavorato sui manoscritti di Baldini, su tutta la sua corrispondenza, e ho letto anche le lettere di Vivian Lamarque, grandissima poeta. Poi Vivian ha avuto la bontà di recensire il mio romanzo, e mentre lo stava recensendo, mi ha scritto che era bello, però non capiva perché lo chiamavo romanzo: a lei non sembrava un romanzo. Allora io l’ho chiamata e le ho detto che ero contento che non sembrasse un romanzo.
Il romanzo che a me sembra il più romanzo di tutti è Guerra e pace. Quando è uscito nel 1865, in Russia, ha avuto uno straordinario successo di pubblico, ma i critici erano divisi, e molti critici rimproveravano a Tolstoj di non aver scritto un vero romanzo. Per loro Guerra e pace non era un romanzo perché mischiava personaggi reali, come Napoleone e Kutuzov, con personaggi inventati. Allora, quello che a noi sembra il romanzo di tutti i romanzi, ai contemporanei di Tolstoj non sembrava neanche un romanzo. Se io scrivessi una cosa che sembra un romanzo, mi verrebbe il dubbio di scrivere una cosa ottocentesca.
Tornando a Vivian Lamarque, ho raccontato anche a lei quell’aneddoto delle poesie di Baldini che «non sembrano neanche poesie». Lei mi ha risposto che una volta è andata in una scuola elementare, ha letto un po’ di poesie, e a un certo punto un bambino ha alzato la mano e ha detto: «Scusi, ma lei perché le chiama poesie, che si capiscono tutte le parole?» Quindi, noi abbiamo un’idea di romanzo che è una struttura, che comincia con un’introduzione, poi c’è un ostacolo da superare, eccetera. Ma il romanzo è un genere in movimento. Naturalmente si possono scrivere anche dei romanzi-romanzi. C’è gente bravissima a farlo. Ma il punto è che, quando mi metto a scrivere, voglio mettere in moto nel lettore quel meccanismo che gli fa voltare le pagine. Poi dopo, i modi di suscitare questo movimento sono infiniti. E uno prova a cercarne sempre di nuovi. È la cosa bella del mestiere che facciamo, che vale tutto, possiamo veramente fare tutto. Ed è una cosa che da un certo punto di vista terrorizza, no? Tutte le possibilità che hai davanti… Però, quando ti sembra di riuscire, insomma… può essere una cosa bella. Può funzionare.

Correlati

Ti potrebbe interessare