Letteratura

Bartleby, tra diniego, esodo e diserzione

Lo scrivano immaginato da Melville, come un folletto irriverente da oltre un secolo appare all’improvviso qua e là per sparigliare le regole del prevedibile e del consueto

  • Un'ora fa
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Di: Romano Giuffrida 

«Avrei preferenza di no»: era il 1853 quando, dalla penna di Herman Melville (1819-1891), appare uno dei protagonisti più sconcertanti della letteratura, Bartleby lo scrivano.

Il racconto omonimo ci porta in uno studio legale di New York dove Bartleby viene assunto come copista. Inizialmente nessuno ha di che lamentarsi: Bartleby «si dava da fare notte e dì, copiando sia con la luce del sole che al lume di candela». Presto però il neo assunto comincia a rifiutare altri compiti, senza particolari motivazioni, ma rispondendo semplicemente «Avrei preferenza di no». Così, fino a quando, giustificandosi con la medesima risposta, pur rimanendo nell’ufficio, smette completamente di lavorare. Lo stupore dell’avvocato titolare dell’ufficio (e narratore dell’intera vicenda) è grande, ma più che per il mancato svolgimento delle mansioni, per la formula che egli usa e che trasforma un comando in qualcosa che, rientrando nell’ambito delle preferenze, può essere rifiutato. Ecco, ad esempio, uno dei tanti scambi tra l’avvocato e Bartleby: «Voglio che m’aiutate ad esaminare codesto foglio, prendetelo... », «Avrei preferenza di no»). Bartleby rifiuta, ma non con l’opposizione di un «No!» che avrebbe posto la questione sul piano tradizionale di una eventuale contrattazione o all’esito finale di un licenziamento. Bartlelby con uno scarto rispetto al prevedibile, rifiuta, ma lo fa come se rinunciasse a un invito e ciò scardina il gioco dei ruoli predefiniti delle controparti. Come ha scritto Gianni Celati nell’introduzione al libro (da lui tradotto), Bartleby «si comporta come se non ci fosse niente da discutere, nessun bisogno di accordarsi meglio con gli altri».

Gilles Deleuze

Gilles Deleuze

Per questo motivo, secondo Gilles Deleuze (1925-1995), la formula che lo scrivano usa «è devastante perché elimina altrettanto impietosamente il preferibile e qualsiasi non-preferito», e ciò crea una distanza incommensurabile con l’ordine delle cose. Per dirla sartrianamente, Bartleby è un essere-per-sé alla massima potenza che si ritira completamente dalla partecipazione sociale. Perché quell’avrei preferenza di no, prima di essere un negarsi all’impegno lavorativo, è la negazione della società e dei suoi imperativi. Nel fare ciò, dispiega così le potenzialità insite nell’essere altrove rispetto al confronto/scontro con l’interlocutore (individuo, istituzione o Stato che sia). Potenzialità ben espresse da Henri Laborit (1914-1995), biologo e filosofo francese nel suo libro Elogio della fuga: «Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa [...] che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso [...] il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme».

Paolo Virno

Paolo Virno

Quella di Bartleby è una fuga senza movimento, è, come direbbe il filosofo Paolo Virno (1952-2025), un «esodo, metaforico... [che] si compie nelle mentalità e nell’ethos: ci si affranca da ruoli, gerarchie, stili di vita... un buon modo di temperare le pretese degli oppressori». Un gesto sovversivo che fa di Bartleby il soggetto perturbante che appare, non previsto e non prevedibile, in un contesto sclerotizzato dalla consuetudine che si è fatta regola. Non per niente, l’avrei preferenza di no ha, inconsapevolmente, segnato e segna la teoria del vivere di molti movimenti antisistemici degli ultimi decenni. I primi che, nei comportamenti, fecero proprio il postulato di Bartleby probabilmente furono gli hippy statunitensi delle origini che esibivano, come aveva rilevato il filosofo Mario Spinella (1818-1994), «il rifiuto della società dei consumi e della macchina che c’è dietro». In una nazione che aveva fatto del consumismo la regola di vita, quello fu un esodo di soggetti anch’essi perturbanti ossia capaci di alterare profondamente lo status quo e creare disorientamento nella società integrata. Un esodo che Paolo Virno riconosce anche negli anni della seconda metà del secolo scorso, quando, a fronte di un mercato del lavoro che si faceva sempre più precario, molti giovani abbandonavano il mito del posto fisso e, anzi, «al lavoro si sottraggono quanto più possono» con la volontà di riappropriarsi di forme di vita liberate dagli obblighi, provocando così una scissione tra dovere e vita auspicabile mai più ricomposta.

Secondo il filosofo infatti: «Abbandonando ruoli e regole prefissati, si rendono labili i presupposti fino ad allora giudicati indubitabili [...]. Nel rapporto di forza tra le classi moderne, l’elusione non conta meno dello scontro diretto», quello che Bartleby aveva già dimostrato da oltre un secolo e che, a sua volta, Franco Berardi Bifo (1949), scrittore e filosofo, riprende nella sua recente elaborazione del concetto metaforico di diserzione: «La pandemia e i collassi sistemici che ne sono seguiti hanno inaugurato ufficialmente l’età dell’estinzione, il che significa che l’estinzione della civiltà umana si profila come orizzonte di possibilità [...]. Non solo gli orrori del fascismo e del nazismo sono tornati in larga parte del pianeta, ma il collasso degli ecosistemi, unito all’esplosione dell’infosfera e al caos mentale che ne segue, ci costringe inevitabilmente a immaginare l’inimmaginabile». E l’inimmaginabile non è una rivoluzione («nessuna rivoluzione potrà fermare la barbarie»), ma è la diserzione. Per Bifo la diserzione è innanzitutto un atto mentale che deve spingere a non investire in niente, a non credere, a non attendersi nulla dal futuro, a ridurre al minimo i bisogni. Ossia vivere dentro il sistema senza crederci, disertando l’identità etnica, il consumo «come surrogato di una vita triste», l’obbligo di uccidere o morire per una bandiera. Una strategia attiva, politica ed esistenziale dunque che si stacca dalle dinamiche di potere per creare nicchie di sopravvivenza e nuove forme di vita. Insomma, per rispondere «Avrei preferenza di no».

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