Partiamo dall’attualità e andiamo a ritroso. Cosa ci racconta l’attualità, a proposito di Giovanni Boccaccio e del suo Decamerone? Ci racconta che il grande autore fiorentino (1313-1375) è probabilmente lo scrittore più martoriato e massacrato della storia della letteratura italiana. O, se non proprio il più esposto a censura, quello su cui si è abbattuta la più pruriginosa voluttà di riscrittura.
Il caso più recente riguarda la versione del Decamerone che la casa editrice La Nave di Teseo ha dato qualche settimana fa alle stampe per firma di Alberto Cristofori, già curatore nel 2022 della nuova traduzione integrale e commentata dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. La copertina del volume sembrerebbe annunciare una nuova edizione del Decamerone e nulla più. In caratteri cubitali, compaiono infatti nome e cognome dell’autore, GIOVANNI BOCCACCIO, e titolo del libro, DECAMERONE. Ma poi ecco che un discreto sottotitolo annuncia: IN ITALIANO CONTEMPORANEO. Non siamo dunque semplicemente di fronte all’ennesima curatela del capolavoro di Boccaccio, bensì a una vera e propria riscrittura.
Operazione legittima? Probabilmente sì, se non altro perché rimarca, secondo le stesse parole di Cristofori, che:
Leggere il Decamerone nella sua lingua trecentesca non è un’impresa facile. Non a caso, tutte le edizioni attualmente in commercio sono accompagnate da un robusto apparato di note e di spiegazioni. Il quale però, inevitabilmente, è un invito a studiare più che a leggere, e a perdere quindi gran parte del piacere del testo.
Alberto Cristofori

Ugualmente c’è da domandarsi due cose. La prima: avrebbe mai approvato, il povero Boccaccio, tra i più raffinati lettori di Dante e Petrarca, suo intimo amico, che dopo 650 anni dalla sua morte si sacrificassero i suoi portenti linguistici in nome di quell’idolo dell’accessibilità che ha di fatto progressivamente sottratto alla letteratura il dovere di studiarla e non solo di leggerla? La seconda: siamo sicuri che leggere Boccaccio e la sua epoca al di qua o al di là della sua lingua creativa significhi ancora leggere Boccaccio? O mutatis mutandis equivale più o meno ad ascoltare questa o quella versione rock della Nona di Beethoven?
La medesima perplessità si potrebbe esprimere, con alcuni distinguo, a proposito della “traduzione” da un italiano all’altro che del Decamerone fece nel 1995 lo scrittore Aldo Busi. Fu anche questa un’operazione di ammiccamento nei confronti di un lettorato ormai sempre meno provvisto di strumenti filologici per entrare in mondi e sintassi che non gli corrispondono o di cui non è perfettamente padrone? Nel caso in questione diremmo di no: poiché non solo esiste una forte consonanza esistenziale-stilistica tra Boccaccio e Busi, ma quest’ultimo può vantare un pathos autorale che in effetti leva alla sua “traduzione” il semplice marchio della riscrittura e lo pone sul piano di una vera e propria opera busiana.
Detto questo, andiamo ancora un po’ a ritroso nel tempo, e cerchiamo di osservare come Boccaccio non solo sia stato “contemporaneizzato” ma anche “arcaicizzato” e, in una versione in particolare del Decamerone, addirittura violentato.
Ne parla, nel suo saggio Le pouvoir et la plume, l’italianista Raul Mordenti, che oltre a ripercorrere le fasi cruciali della cosiddetta «censura rinascimentale» rammenta, con effetti tragicomici, il caso più eclatante tra quelli che hanno colpito il Decamerone. Si tratta della versione che del capolavoro di Boccaccio diede, sulla scorta della mentalità bigotta e passatista della Controriforma tridentina, a fine Cinquecento, il dubbio letterato Lionardo Salviati. Di che si tratta? Probabilmente del più grande stupro che opera letteraria abbia mai subito: verosimilmente persino peggiore dei “mutandoni” apposti nello stesso periodo ai nudi della Cappella Sistina di Michelangelo.
Tra i principali ispiratori del Vocabolario degli accademici della Crusca, Salviati ricevette dall’allora granduca Francesco I, non a caso tra i più strenui difensori della Controriforma, il compito di «rielaborare» il Decamerone alla luce dei princìpi e dei valori sorti dal processo controriformistico. Ed ecco che il Salviati, messosi zelantemente al lavoro, produsse il suo mirabile scempio: nel 1586 compare a Firenze la sua versione «rassettata» del Decamerone, in cui lo stravolgimento stilistico e contenutistico è talmente radicale da ribaltare il Boccaccio in una sorta di anti-Boccaccio.

"La storia di Nastagio degli Onesti", Sandro Botticelli, 1483
Tutta l’opera viene integralmente, con grande successo di pubblico, riscritta. Ma non solo per riportarla al fiorentino trecentesco tanto amato dagli accademici bacchettoni e passatisti dell’epoca (e soprattutto ai puristi della Crusca), bensì anche per “adeguarla” ai nuovi canoni morali controriformisti. Così ecco che almeno sessanta novelle ricadono sotto il maglio del Salviati, e tutto ciò che in Boccaccio è oltraggio alla Chiesa, ai santi, ai sagrestani e alla morale ecclesiastica viene ribaltato nel suo contrario. Con l’effetto che Boccaccio, invece del dissacratore che conosciamo, finisce per presentarsi come una sorta di casto moralizzatore.
Un esempio fra tutti: la novella di Masetto, la prima della terza giornata. Laddove Boccaccio ci mostra l’ortolano Masetto concupire senza ritegno una serie di suore di un monastero cristiano, Salviati sposta addirittura la scena ad Alessandria d’Egitto, dove Masetto si presenta come «ebreo» e le concubine come abitatrici di un dissoluto harem di arabe senza scrupoli. Con il risultato che, non trovando la mentalità dell’epoca nulla da ridire sulla dissolutezza di ebrei e arabi, Boccaccio viene letterariamente stuprato e il suo povero Masetto ridotto a ciò che non era mai stato.
A riprova che ogni tempo ha i suoi censori, ogni riscrittura i suoi profanatori, ogni intento moralizzante – sia esso nel segno della moralità cristiana o di quella di mercato – i suoi «dubbi letterati», i suoi improbabili adepti.
Il Decameron falsificato: un giallo bibliografico tra censura e intrighi storici (5./5)
Alphaville: le serie 19.12.2025, 12:30
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