letteratura nordeuropea

I peggiori autunni, i peggiori inverni di Germania

Stig Dagerman tra le macerie tedesche. Ottant’anni dopo, un reportage sempre attuale

  • Un'ora fa
Le rovine di Colonia nel 1945

Le rovine di Colonia nel 1945

  • IMAGO / KHARBINE-TAPABOR
Di: Mattia Mantovani 

Ci sono stati due autunni tedeschi tristemente e drammaticamente passati alla storia. Il più noto è forse l’autunno 1977, più precisamente il periodo tra il 13 e il 18 ottobre, raccontato l’anno dopo da Rainer Werner Fassbinder e altri dieci registi nel film Germania in autunno. Fu l’autunno nel corso del quale le istituzioni democratiche e la coesione sociale della Repubblica Federale vennero messe gravemente in pericolo dal rapimento e l’uccisione del presidente del Bundesverband der Deutschen Industrie (la Confindustria tedesca) Hanns-Martin Schleyer, il tragico dirottamento del Boeing 737 “Landshut” della Lufthansa a Mogadiscio e la morte nel carcere di Stammheim presso Stoccarda, in circostanze mai sufficientemente chiarite, dei terroristi della Rote Armee Fraktion Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan Karl Raspe.

L’altro autunno risale invece a poco più di trent’anni prima e fu magistralmente raccontato dal giovane scrittore svedese Stig Dagerman, che viaggiò tra le macerie della Germania dal 15 ottobre al 10 dicembre 1946. Il suo resoconto, intitolato appunto Autunno tedesco e giustamente definito dal suo connazionale e ideale successore Henning Mankell «uno dei migliori libri mai scritti sulle conseguenze della guerra», è un libro davvero “non inutile”, per riprendere una celebre definizione di Primo Levi, perché l’allora ventitreenne Dagerman ha descritto la Germania dell’immediato dopoguerra in pagine di spiccato valore letterario e documentario. Lo ha opportunamente ribadito il compianto Goffredo Fofi nella prefazione alla più recente edizione italiana, istituendo un paragone tra il resoconto di Dagerman e il quasi coevo Germania anno zero di Roberto Rossellini: «Dagerman guarda, vede, appunta, si interroga, non vuole mentire e soprattutto non vuole mentirsi. Rossellini mostra attraverso lo sguardo di un ragazzino gli effetti della dottrina nazista, il disorientamento di una cultura, la fatica di risollevarsi nell’obbligo, confermato dalle truppe di occupazione e dalla divisione del paese, di ritrovare sul breve periodo una identità forte e fattiva. Tanto grande era il disastro che si era provocato, e che si era in qualche modo cercato».

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La recensione di Mattia Mantovani

RSI Cultura 24.08.2018, 15:28

È uno scenario che Dagerman evoca fin dall’inizio del reportage, con pennellate molto incisive e una scrittura estremamente “visiva”, per taluni versi quasi cinematografica, a testimonianza della giustezza del paragone col film di Rossellini: «L’autunno 1946 è stato un triste autunno, con pioggia e freddo, crisi di fame nella Ruhr e fame senza crisi nel resto del vecchio Terzo Reich. Per tutto l’autunno sono arrivati i treni che trasportavano i profughi dall’Est verso le zone occidentali. Gente vestita di stracci, affamata e indesiderata si accalcava nei bunker senza luce e maleodoranti delle grandi stazioni ferroviarie o in quei bunker giganteschi, alti e senza finestre, simili a gasometri quadrangolari, che si innalzano come enormi monumenti alla sconfitta nelle città tedesche rase al suolo». La realtà produce il linguaggio, che a sua volta la rimodella in simbolo e metafora. Non a caso, è proprio nel linguaggio che si può ravvisare il tratto dirimente del resoconto di Dagerman e della sua discesa negli inferi. Perché le parole, come ricordava giustamente Carlo Levi, altro grande viaggiatore in inferni più o meno climatizzati, non sono mai innocenti.

Stig Dagerman con sua moglie, Anita Björk, nel 1950 ca. (Wikipedia - dominio pubblico - A-pressens Stockholmsredaktion)

Il periodo del nazismo, tra gli altri danni, aveva infatti devastato anche la lingua tedesca: il tedesco che si parlava prima, la lingua della riflessione filosofica, del romanticismo e delle sue effusioni liriche (la lingua di Goethe, Hölderlin, Schiller e Thomas Mann), si era infatti trasformato nel corso di quei dodici anni micidiali nel gergo della canaglia hitleriana, con le infami menzogne della dittatura che avevano intaccato quasi ogni parola. A differenza degli scrittori tedeschi, quali ad esempio Heinrich Böll e Wolfgang Borchert, che incontravano enormi difficoltà ad utilizzare una lingua oltraggiata e sfigurata (come ricordò Viktor Klemperer nel suo fondamentale studio LTI - Lingua Tertii Imperii, sull’abietto idioma del Terzo Reich), lo svedese Dagerman aveva a disposizione una lingua sostanzialmente intatta, che gli permetteva di esprimere e rappresentare l’indicibile. Lo fa capire lo stesso Dagerman in un brano dedicato alle cosiddette “cantine abitate” nella zona della Ruhr, che restituisce i presupposti e le credenziali stilistiche dell’intero reportage: «I medici, che raccontano agli intervistatori stranieri le abitudini alimentari di queste famiglie, dicono che ciò che cucinano in quelle pentole è indescrivibile. In realtà non è affatto indescrivibile, come non lo è il loro intero modo di esistere. Se si vuole, si può descrivere benissimo».

Sono descritte benissimo, ad esempio, le grandi città rase al suolo, in pagine di straordinario impatto, tutte modulate sulla tensione dialettica tra dicibile e indicibile: «Berlino ha i suoi campanili amputati e le sue interminabili file di edifici governativi in macerie, i cui colonnati prussiani, abbattuti, riposano con i loro profili greci sui marciapiedi. I tre ponti di Colonia sul Reno giacciono sommersi da due anni, e il duomo si erge cupo, annerito e solitario in mezzo a un cumulo di macerie, con una ferita di fresco mattone sul fianco, che sembra sanguinare al calar della sera. Le piccole torri medievali, nere e minacciose, sono crollate nei fossati di Norimberga, e nelle cittadine renane le costole degli edifici di legno bombardati sporgono come scheletri».

La descrizione di Colonia, per quanto ristretta nell’ambito del reportage, è molto simile a quella che si può trovare nei due romanzi Croce senza amore e L’angelo tacque che il giovane esordiente Heinrich Böll scrisse in quegli stessi anni e sono stati pubblicati postumi nel 1992 e nel 2002. Lo svedese Dagerman, molto legato anche per questioni familiari alla cultura tedesca (nel senso manniano di Kultur, “civiltà”), in particolare quella prodotta nella zona della Renania, soffre terribilmente alla vista dei centri di quella grande cultura ridotti ormai a un cumulo di macerie. Tuttavia, più ancora che dalle macerie di Colonia e delle città renane, agli occhi di Dagerman la cifra simbolica dell’autunno tedesco  – l’“era glaciale”, secondo la definizione di un altro grande testimone quale Gregor von Rezzori – è rappresentata dalla distruzione di Amburgo: «Non una città in rovina, ma un paesaggio di rovine, più desolato di un deserto».

Lo scrittore-reporter compie un viaggio in treno di circa quindici minuti nella zona periferica tra le stazioni di Hasselbrook e Landwehr, e questo è il panorama che si offre al suo sguardo: «Resti di edifici indefinibili con ampie tracce nere di incendio. Travi arrugginite spuntano dai cumuli di macerie come prue di navi affondate da tempo. Facciate trattate con cura, ma prive di ciò che dovrebbero coprire, stanno lì come scenografie di teatri mai costruiti. Qui si cerca inutilmente persino quello che può ricordare la vita umana. Solo i termosifoni si aggrappano ancora ai muri come grandi animali impauriti. Oggi c’è quiete, ma quando il vento soffia, produce rumore nei caloriferi, e tutto questo ex quartiere mortalmente silenzioso si riempie di uno strano suono martellante».

Alcuni anni dopo, quando Thomas Mann fece visita a Lubecca, città natale, “forma di vita spirituale” (secondo la sua stessa definizione) e sfondo de I Buddenbrook, trovò il medesimo scenario: della casa in Mengstrasse, dove è ambientato il romanzo, era rimasta soltanto la facciata. Ma la distruzione davvero irreparabile era un’altra, come ha osservato giustamente Colm Tóibín nel romanzo Il Mago, dedicato alla sua tormentata vicenda umana e poetica. Perché l’anziano scrittore, giunto alla soglia degli ottant’anni, avrebbe voluto rievocare il tempo perduto con tutti coloro che avevano condiviso gli spazi di quella casa. Però non c’era più nessuno, o quasi (morti il padre e la madre, morte le due sorelle, entrambe per suicidio, morto il fratello maggiore Heinrich): «Forse c’erano altre storie che avrebbe ricordato, storie dimenticate da tanto, che aveva ascoltato in compagnia di chi aveva vissuto con lui in quella casa e adesso si era trasferito fuori dal tempo, in un regno i cui confini non gli erano ancora troppo chiari». Viene da pensare alla Vienna descritta da Graham Greene ne Il terzo uomo, portato sugli schermi da Carol Reed e Orson Welles. Come ha scritto un recensore d’eccezione quale Ennio Flaiano, servendosi di una metafora tanto paradossale quanto penetrante: «Uno scenario vivo, una Vienna che appare umida e sconfitta, coi suoi monumenti barocchi che la fanno somigliare a una torta nuziale sformata dallo scirocco».

Descrivere l’indescrivibile. Non pochi hanno tentato di farlo, in quel periodo, alcuni ci sono anche riusciti. Basti pensare, solo per fare un esempio, alle splendide pagine del Diario 1946-1949 di Max Frisch, che fu tra i primi a visitare e descrivere le grandi città tedesche – Monaco di Baviera, in particolare – ridotte in macerie. Tuttavia Dagerman si spinge ancora più a fondo nella melma dell’indicibile, che nelle pagine dedicate alle cantine della Ruhr possiede una connotazione simbolica e drammaticamente reale. È la melma dell’abiezione, che sale e monta fino a seppellire ogni dignità umana: «Non sarebbe fuori luogo descrivere gli indescrivibili sentimenti che prova la madre di quei tre bambini affamati quando questi le chiedono perché non si trucca anche lei come la zia Schulze, così da aver cioccolato, conserve e sigarette da un soldato. E l’onestà e la decadenza morale in questa cantina piena d’acqua sono entrambe così indescrivibili che la risposta di questa madre è la seguente: nemmeno i soldati di un esercito di liberazione hanno tanta pietà da accettare un corpo sporco, sciupato e vicino alla vecchiaia, quando la città è piena di corpi più giovani, più forti e più puliti». Potrebbe essere una scena degna di Apocalypse Now, oppure di Kaputt e La pelle di Malaparte, o ancora della Trilogia del Nord di Céline. Sicuramente è il grado zero dell’umano, il suo eterno e irredimibile cuore di tenebra.

Ma è soprattutto nell’autunno di Amburgo che il viaggio infernale sembra non avere fine. Ad Altona, nei servizi igienici – autentiche chiaviche, in realtà – di una scuola crollata, vive una famiglia con tre bambini, ridotta in condizioni disumane, che ha preso il posto di un’altra famiglia i cui membri, salvo il padre, sono tutti morti di tubercolosi. Sempre ad Altona, in un cimitero bombardato, con le lapidi divelte e i «tumuli recenti e cupi», Dagerman osserva i visitatori e ha l’impressione di leggere sui loro volti la felicità di «chi ringrazia Dio di essere vivo all’inferno». Sono parole vecchie (si fa per dire) di ottant’anni, ma potrebbero essere descrizioni dell’attualità più recente.

Certo, la distanza attenua e attutisce, però non assolve, come sottolinea Dagerman nelle considerazioni conclusive: « L’aeroplano si solleva verso la sera d’inverno, avvolto in una nuvola di pioggia e di neve tedesca, mentre le luci di Francoforte si dissolvono in una nube di oscurità e il velivolo svedese si alza al di sopra della sofferenza tedesca a una velocità di trecento chilometri l’ora. E allora c’è un pensiero che s’impone alla riflessione del viaggiatore: come ci si sentirebbe se si fosse costretti a rimanere, se si dovesse sentire la fame tutti i giorni, dormire in cantina, tremare di freddo ad ogni minuto, lottare per sopravvivere anche nelle condizioni più difficili?». La risposta – ammesso che ci sia una risposta – l’ha fornita lo stesso Dagerman in un racconto autobiografico, servendosi di una suggestiva metafora: «Il giornalismo è l’arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possibile. Io non la imparerò mai».

Le impressioni raccolte durante il viaggio dell’autunno 1946, pubblicate a partire dal 26 dicembre dello stesso anno sul giornale Expressen di Stoccolma, vennero poi raccolte in volume nella primavera dell’anno successivo. Sono passati otto lunghi decenni, ma Autunno tedesco rimane più che mai una lettura necessaria. «Quanto è grande la distanza tra la letteratura e la sofferenza? È più breve la distanza tra la poesia e la sofferenza causata dal riflesso del fuoco o tra la poesia e la sofferenza generata dal fuoco stesso?». Sono le parole che aprono l’ultimo capitolo: il ventitreenne Dagerman possiede già il passo e la tempra del grandissimo scrittore, capace di porre domande che affrontano di petto le cose ultime e il senso stesso della scrittura che reinventa e rimodella l’esistenza. Qual è la distanza più breve tra la poesia e la sofferenza, e viceversa?

Secondo Goffredo Fofi, che ha chiamato giustamente in causa i pamphlet del suo antesignano e “nemico del popolo” August Strindberg, il giovane Dagerman non ha sopportato la fine burrascosa della storia d’amore “à la Miss Julie” con la bella e brava attrice Anita Björk (grande interprete strindberghiana, non a caso) e più ancora «la dura constatazione di aver tradito la propria classe e i propri ideali, diventando uno scrittore di successo. Non esiste un “mistero Dagerman”, è lui stesso a negarlo». Probabilmente è così, ma taluni margini di dubbio permangono.

A proposito di margini di dubbio. Esattamente otto anni dopo il viaggio nella Germania distrutta, nel corso di un altro autunno, il trentunenne Stig Dagerman, enfant prodige e astro nascente delle lettere svedesi, scende nel garage di casa in una zona periferica di Stoccolma, avvia il motore dell’automobile e si lascia soffocare dai gas di scarico. È la sera del 3 novembre 1954. Potrebbe essere tutta un’altra storia, una semplice coincidenza. O forse no.

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