Come può esserci un nesso tra depravazione, perversione, abiezione – secondo quanto suggerisce questo titolo – e la più candida figura di riferimento a cui possa affidarsi un ragazzo: una madre? È la scommessa a cui si offre, nel segno del più feroce scandaglio dell’ignominia, il romanzo di Georges Bataille Mia madre, probabilmente l’ultimo grande grido spirituale del cosiddetto “maledettismo francese”.
Un grido spirituale, certo, perché Bataille non scende mai a patto con la morale né tanto meno con il moralismo ecclesiastico. E se da sempre ha scelto il Male (ricordiamo La letteratura e il male) come grimaldello per accedere alle segrete verità dello spirito, lo ha fatto perché nell’oscurità del Male è racchiusa la luce di quanto esso rivela.
Eppure in questo “grido spirituale” tutto è letteralmente reale, tutto è autenticamente possibile. Non siamo di fronte a una sorta di misticismo “in salsa nera”, ma alla coincidenza più intima che lega corporalità a spiritualità. O per dirlo con le stesse parole di Bataille, siamo di fronte alla coincidenza fra l’immondo e il divino, tra la parusìa del Male e la parusìa di Dio.
“Mi sembrava che l’impurità mostruosa di mia madre – e la mia, altrettanto ripugnante – gridassero al cielo e fossero simili a Dio, in quanto solo le più profonde tenebre sono simili alla luce. Ricordavo la frase lapidaria di La Rochefoucauld: ‘Il sole e la morte non si possono fissare...’ Ai miei occhi la morte non era meno divina del sole, e nella sua abiezione mia madre era più vicina a Dio di tutto quanto avessi mai veduto dalle finestre di una Chiesa”.
Di quale immonda natura è dunque questa “impurità mostruosa” che lega per sempre, in una specie di patto satanico-divino, il giovane Pierre alla dissoluta madre? La trama del libro lo illustra con avarizia, ricordandoci solo l’essenziale, eludendo il superfluo e schivando con geniale finto pudore qualsiasi scontato lessico dell’oscenità. Ma da ogni dettaglio trasuda la luce delle tenebre. Pierre scopre, tardivamente, dopo la morte del padre alcolizzato, che costui non era solo incline a depravazioni di ogni sorta, non solo era indegno di rivestire il suo ruolo genitoriale, ma aveva avuto – per stessa confessione della madre – in lei la sua complice e istigatrice. Comincia così, in un itinerario mentale che tracima progressivamente nell’accoglienza dell’abiezione, a identificarsi nelle aberrazioni del padre e a individuare nella madre una sorta di alleata nel più sordido dei destini: quello di ammettere con se stesso che nulla è altrettanto rivelatorio quanto l’adesione all’abisso. “Mia madre mi annunciava quel che meglio poteva rispondere al mio desiderio di scendere nel cuore del pericolo, quel che mi dava la più grande vertigine”.
Eros e Thanatos vengono allora fatalmente a convergere. Ma soprattutto “demoniaco” e “divino” si ritrovano in una medesima essenza. La madre cessa di essere vittima e diventa carnefice, il suo passato cessa di rientrare nel quadro dell’innocenza e si svela in quello della colpa e della dissolutezza. E Pierre riconosce che proprio questa doppia abiezione – quella del padre, di indulgere alle più segrete perversioni, e di seguito quella della madre, di assecondarlo e incoraggiarlo – sono l’orrido lasciapassare per cogliere il fondo intimo e oscuro del piacere e della perversione.
Siamo quindi su quel piano di maledettismo che tanta parte ha avuto nella letteratura francese del secolo scorso. Un maledettismo che non aveva alcuna pretesa di limitarsi a rompere codici e convenzioni, ma nutriva la suprema ambizione – che qui abbiamo chiamato spirituale – di farsi strumento per il riconoscimento “immorale” della natura umana. Un maledettismo, pertanto, e una ambizione spirituale, che prima di ogni altro orizzonte perseguivano quello euristico della nostra anima nera.
O non è forse vero che nel Male – dunque anche nella perversione e nel cedimento all’orrido – si agitano i germi reconditi della nostra verità umana? Non è forse vero che a ciascuno appartiene – sia o meno tale patrimonio di oscenità socialmente disconosciuto – un remoto richiamo verso la dissolutezza, l’abiezione e il decadimento?
Pasolini riteneva che nella sua più profonda interpretazione il concetto di “scandalo” fosse rivelatorio di che cosa alberghi di innominabile nell’intimo di ciascuno di noi. Bataille, portando alle estreme conseguenze tale affondo nell’indicibile e nell’irricevibile, lo ribadisce con la perentorietà di una filosofia dell’occulto: “Così potevo rispondere all’invito del mio destino che mi chiedeva di sprofondare fino in fondo, sempre più giù, scendere al punto in cui mia madre mi guidava e bere il mio calice con lei, berlo, quando avesse voluto, fino alla feccia”.
Siamo al livello più puro dell’introspezione senza infingimenti, dello svelamento e del disvelamento dell’osceno. E lo siamo non già secondo i moduli del facile scandalismo della nostra epoca – che gioca sul turpiloquio senza nemmeno immaginare le risorse euristiche dell’osceno en tant que tel – ma su quello dell’allusione e del non detto. Il “peggio” di tutto ciò a cui gradualmente Pierre si espone non è infatti mai nominato (come se non fosse infine nominabile) ma appare nondimeno in tutta la sua eloquenza. Non si parla di organi sessuali, non si riferisce di verbi della promiscuità e della perversione, non si indulge al compiacimento della sintassi da postribolo, ma si evoca e si presta il destro all’immaginazione. Con l’effetto, travolgente e devastante, che alla fine penetriamo nella nostra stessa depravazione senza nemmeno accorgercene e senza potercene – o forse persino volercene – più ritrarre.