Insegnate, critico letterario, poeta, con la sua prima raccolta di racconti Breve pazienza di ritrovarti ha vinto il Premio svizzero di letteratura nel 2016: Giovanni Fontana torna in libreria con Macchie azzurre, in una sera d’estate, pubblicato dall’editore romano Castelvecchi.
Il romanzo racconta protagonisti misteriosi ma sinceri, a partire da una donna che attraversa il Novecento cercando la sua identità: Elena nasce in Italia, sul lago di Como, in un ambiente piccolo borghese segnato dal fascismo, studia a Milano, si sposa in Svizzera, sperimenta una maternità dolorosa a causa della malattia psichica del figlio maggiore. Coraggio, speranza, ottimismo sono le tre parole che Elena ha scritto su di un foglio appeso in cucina, ma il personaggio è, inevitabilmente, molto più di questo.
Secondo Giovanni Fontana «è un personaggio difficile da descrivere e da raccontare. Mi ci sono voluti parecchi anni per cercare di portare alla luce i suoi segreti, i suoi lati nascosti. Riguardo a quel foglietto di bloc notes, quelle tre parole, coraggio, speranza, ottimismo… è importante perché è il momento in cui Elena scopre il proprio destino, la propria missione. O forse ancora, direi, la propria condanna. Elena è una ragazza che fin da giovane cerca sé stessa. Nasce sul lago di Como, e cerca sé stessa inizialmente specchiandosi nelle persone che ha intorno, soprattutto sua madre Costanza. Di lei avverte la forza, la concretezza, direi quasi anche l’eroismo… ma la sente profondamente estranea alle sue aspirazioni più profonde. Poi suo fratello Sandro, la sua amica del cuore Lucia, e tutti gli altri abitanti di questo piccolo mondo lacustre in cui cresce.
Il primo momento importante della sua vita è la scoperta dell’interiorità, la scoperta dei sentimenti, sentimenti su cui la piccola società filistea in cui è nata e cresciuta stende un velo di silenzio e quasi di censura. Li scopre in un momento delicato della sua vita, in cui è costretta a soggiornare per un breve periodo in una casa di cura in una località sopra il lago di Como, Zelbio. Nell’atmosfera particolare di questo luogo isolato dal mondo, osservando per la prima volta il lago da una prospettiva diversa, dall’alto e non dal basso, avverte qualche cosa di nuovo, sente il richiamo dei sentimenti… e li scopre, attraverso la musica che per la prima volta ascolta nell’atrio del sanatorio: Chopin. Poi attraverso i versi di Montale, che legge su un libro che le viene prestato da un vicino di stanza, uno studente, anche lui lì per curarsi… scopre i sentimenti, e scopre che vorrà essere diversa da sua madre, che vorrà studiare per scoprire sé stessa. Quindi gli studi universitari a Milano, alla Cattolica: anni veramente elettrizzanti per lei, perché coincidono anche con la scoperta dell’amore, per un assistente universitario timido e intelligente. Un amore, potremmo dire, disincarnato, che galleggia su una pellicola sottile di parole: parole lette, parole ascoltate, parole scritte.
Il passo successivo - la prima incrinatura, potremmo dire, nei sogni di Elena - avviene alla vigilia del matrimonio. Scopre di dover fare i conti con qualche cosa che fino a quel momento aveva ignorato: il corpo. È il primo shock, potremmo dire, a cui si sommano, subito dopo il matrimonio, il trasferimento in Svizzera, le responsabilità e il peso di una vita che pensava di essersi lasciata alle spalle definitivamente scegliendo di studiare: una vita da sposa, e poi da madre che deve dedicarsi interamente ai propri figli. Quando accade l’imprevisto, la malattia psichica del figlio primogenito Luca, è naturalmente un evento dirompente che rimette in discussione tutti gli equilibri precedenti. Ma è anche, paradossalmente, l’evento che le offre la possibilità di riempire una sorta di vuoto interiore. E quindi la scena in cui lei scrive quelle tre parole - coraggio, speranza, ottimismo - è in sostanza l’accettazione di una missione che però è anche una condanna».
“Macchie azzurre, in una sera d’estate”
Alice 21.06.2025, 14:40
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Elena è sicuramente un personaggio di donna tragico, misterioso. E lei la racconta attraverso le voci di chi l’ha conosciuta e frequentata. Una scelta, quella della polifonia, difficile da gestire per uno scrittore. Perché ha optato per questa forma?
Qui tocca un punto importante nella mia idea di narrazione, e di narrazione lunga. Nel mio passaggio dal racconto breve al romanzo, ho immaginato una narrazione polifonica. Forse per capire il senso di questa scelta bisogna partire dalla situazione iniziale, che viene descritta nelle prime pagine del romanzo: Elena è ormai in là con gli anni, vedova, è messa a confronto con i risultati preoccupanti di alcuni test clinici che la inducono a ripensare alla vita, a ripercorrere la trama della sua esistenza, in una ricostruzione che però ha qualcosa di forzato. È quella condizione particolare in cui si trovano gli anziani che cercano di far tornare tutti i conti della propria vita, e di trovare un senso anche laddove questo senso non c’è stato. Ecco, questo tipo di ricostruzione tocca profondamente Pietro, il secondogenito, il figlio in questo momento più vicino ad Elena: lo tocca, ma anche lo indigna, perché l’immagine che ha lui di questa storia familiare è completamente diversa.
Secondo lui, è una storia segnata dal dolore, dall’incomprensione. E anche quell’evento centrale, la malattia psichica del figlio maggiore, andrebbe scritto e raccontato in maniera diversa. Da questa tensione nasce il bisogno di Pietro di contrapporre alla narrazione della madre una narrazione alternativa. E mentre lui disseppellisce dai cassetti polverosi diari, lettere, fotografie, ecco sorgere, come dal nulla, le voci di testimoni che hanno conosciuto Elena, e che sono pronti in qualche modo a raccontarla, e a raccontare anche una parte della propria vita. Questo meccanismo, questo intreccio polifonico di voci, non è un esercizio di sperimentalismo fine a sé stesso, ma risponde a due esigenze ben precise, almeno per me. Da una parte descrivere la ricerca faticosa di un senso che ognuno di noi compie dentro di sé, insidiata naturalmente dai buchi della memoria e dalle trappole; dall’altra, dare al lettore il senso dell’enigma di Elena.
Elena è veramente un personaggio imprendibile: una donna normale, ma anche una donna che vive nell’ombra e che pure dall’ombra sa sprigionare un fascino a cui non si può restare insensibili. Si affollano intorno ad Elena tante voci, si moltiplicano le prospettive, ma questo non dirada la nebbia che circonda Elena, ma al contrario, potremmo dire infittisce questo piccolo grande mistero, che forse tutti noi siamo. Quindi il senso di questa narrazione polifonica è la ricerca di una verità che però si rivela, in definitiva, sempre sfuggente.
"Macchie azzurre, in una sera d’estate” di Giovanni Fontana, Castelvecchi Editore (dettaglio di copertina)
C’è spazio anche per il racconto del monologo interiore delle varie voci che ci restituiscono la figura di Elena, un monologo interiore che lei rende tra parentesi, in corsivo. Questa scelta riflette uno scarto tra l’agito e il pensato, che diventa una frattura difficilmente sanabile?
È così. Io volevo creare livelli di scrittura e quindi anche di lettura diversi. Volevo che il personaggio ci apparisse nelle sue azioni, nelle sue parole, ma anche nei suoi pensieri, e che ci fosse una specie di cortocircuito fra queste dimensioni. Da qui il ricorso a registri diversi, anche a soluzioni grafiche diverse contemporaneamente. Volevo creare un ritmo particolare nel racconto, un ritmo spezzato.
Il lettore si accorgerà, aprendo il mio libro, che sono molto frequenti gli spazi bianchi fra un paragrafo e l’altro. Questo vuole dare il senso di una narrazione quasi ansimante, di un’angoscia che in qualche modo accompagna chi scrive e chi legge. Quindi, sì, il ricorso a questi registri, ai corsivi che si affiancano ai tondi, alle parentesi che in qualche modo incidono sulla pagina ulteriori spazi di approfondimento… è assolutamente intenzionale, e legato proprio a questa idea di scrittura frammentaria, di andamento franto, quasi sincopato, che mi sta a cuore fin da quando ho cominciato a scrivere, e che in qualche modo esisteva già in nuce nei racconti precedenti.
Arriviamo al personaggio di Luca, il figlio maggiore, affetto da questa malattia psichica profonda, importante, che stravolge Elena ma anche la vita famigliare tutta. Mi è sembrato di avvertire quasi un pudore nel far sì che Luca prendesse voce, che raccontasse anche lui Elena...
Credo che lei abbia ragione… diciamo che, per gran parte del romanzo, Luca viene raccontato dagli altri, viene in qualche modo descritto attraverso il filtro delle coscienze di altri personaggi, la sua malattia in particolare. Volevo che si creasse una sorta di attesa anche nel lettore, perché c’è uno spazio per Luca, che è la parte finale del libro, l’epilogo in cui prende la parola direttamente e racconta sé stesso, i suoi rapporti con la madre, i rapporti con il fratello minore. Potremmo dire che entrambi, sia la madre che il fratello, in qualche modo usano la malattia di Luca, parola che pronuncio con un certo dolore. Abbiamo detto che Elena trova in questa malattia e nell’accudimento di Luca una ragione di vita, ma anche Pietro, in un certo senso, trae dalla vicinanza con Luca l’impressione di vivere qualcosa di grande, di essere sfiorato da qualche cosa di grandioso come la malattia psichica può essere. So che sto dicendo una bestemmia, la malattia psichica è dolore in primo luogo, ma in sé anche qualche cosa di grande… E Pietro, in qualche modo, sente questa grandezza. Naturalmente Luca avverte in questo atteggiamento del fratello, una forzatura, perfino una violenza.
La malattia di Luca è raccontata per gran parte del libro attraverso le coscienze degli altri personaggi. In particolare c’è una scena, un evento dirompente che segna l’inizio della fase più clamorosa di questa malattia, che viene raccontata tante volte da diversi punti di vista. Come se raccontandola tante volte e consumando in qualche modo le parole, la si potesse cancellare, si potesse ritrovare intatto il figlio quattordicenne che esisteva il giorno prima dell’esplodere della malattia. Quindi, c’è come una preparazione all’ingresso in scena di Luca, che avviene soltanto nella parte finale.
Luca esprime anche un desiderio di normalità, vorrebbe essere invisibile, vorrebbe non essere più al centro della scena, vorrebbe essere normale. Però percepisce anche su di sé questo destino di solitudine. Ho cercato nelle pagine finali di far sentire questo senso di solitudine, si abbandono. Anche intrecciando al racconto di una scena l’evocazione di alcuni versi di Rilke che mi hanno sempre toccato molto, e che parlano proprio di solitudine, di abbandono.