«Io non ho uno stile, ho molti stili».
Questa frase, imprudentemente coniata dal sottoscritto alcuni anni fa, potrebbe sembrare un vezzo autoriale. In realtà, più passano gli anni, più mi rendo conto che le scrittrici e gli scrittori che hanno segnato la modernità in ambito letterario – ma in parte anche le scrittrici e gli scrittori dell’antichità – hanno più o meno tutti, in una forma o nell’altra, una pluralità di stili.
Certo, esistono quelle che in narratologia vengono chiamate «cifre narrative»: per cui una qualsiasi pagina di Saramago è indubbiamente una pagina di Saramago, una qualsiasi pagina di Vargas Llosa è indubbiamente una pagina di Vargas Llosa e una qualsiasi pagina di Virginia Woolf è indubbiamente una pagina di Virginia Woolf.
Ma se è vero che dentro questa «cifra narrativa» essenziale – diciamo pure noumenica, individuale – è riconoscibile l’identità di un autore, è altrettanto vero che tra le sue pieghe si annida spesso, quasi sempre, una pluralità di stili.
Se pensiamo al citato Vargas Llosa, per esempio, è difficile non mettere in qualche modo in contrapposizione stilistica il lineare, tradizionalissimo eppure così «vargasllosano» Chi ha ucciso Palomino Molero?, o l’altrettanto tradizionale La guerra della fine del mondo, con lo sperimentale Conversazione nella cattedrale o l’ermetico La casa verde. Allo stesso modo, se pensiamo a Saramago, una grande distanza stilistica distingue Il Vangelo secondo Gesù dal molto più serrato ed evocativo Memoriale del convento.
Gli esempi potrebbero continuare e protrarsi all’infinito. Ma quello su cui ci intratterremo adesso è forse uno dei più emblematici: quello di Karen Blixen.
Molti dei nostri lettori conosceranno sicuramente La mia Africa dell’autrice danese. Un libro-memoriale, un libro di ricordi, che in qualche misura sconfina dal romanzo in senso stretto verso il diario letterario o addirittura verso il saggio letterario. Un libro pregno di umanità, di partecipazione autobiografica ai destini di un continente abbandonato all’oblio. Ma anche di informazioni sociologiche sull’Africa, le abitudini e culture dei suoi abitanti, di annotazioni scrupolose sui suoi rituali e sulle sue tradizioni religiose. Un libro, quindi, che pochissimi margini concede all’ambiguità, all’enigma e all’allusività. Insomma, un libro esplicito, diretto e lineare come sono in genere le opere più o meno diaristiche.
Affrontare, dopo la lettura de La mia Africa, la raccolta di racconti Carnevale – pubblicata in Italia per i tipi di Adelphi – rappresenta dunque un salto in una dimensione narrativa che con il capolavoro dell’autrice danese – sia a livello formale sia a livello ambientale sia a livello di personaggi sia a livello di enigmaticità – non ha nulla a che vedere.
I racconti di Carnevale sono infatti improntati a una lingua sicuramente chiara e comprensibile, ma si sviluppano all’interno di contesti e situazioni narrative che con l’evidenza sociologica de La mia Africa non hanno nulla da spartire.
Sono racconti misteriosi, che molto più di un Hemingway o di un Achebe, di un Okri o di un Kapuscinski – scrittori che si sono misurati, come sappiamo, sull’Africa – ricordano un certo Edgar Allan Poe. Oltretutto non si tratta di racconti che illustrano questo o quell’aspetto di questa o quella vita reale, bensì racconti onirici, a loro modo fantastici, che si muovono assai più su un piano di surrealtà che di realismo.
Un vago filo conduttore li unisce. Ma ciò che più sbalordisce è che non vennero concepiti prima o dopo la scrittura de La mia Africa, ma praticamente nel corso di tutta la sua vita. E che per le singolari bizzarrie del destino non furono mai pubblicati se non postumi.
Cosa li unisce? Innanzitutto, volendo richiamare le stesse parole della Blixen, un amore per il racconto che si rivela in tutta la sua perentorietà. Molto più che in La mia Africa, in Carnevale infatti si avverte la verve autoriale della scrittrice danese, e in tutta la sua smagliante purezza quella che potrebbe essere chiamata la sua «letterarietà».
Sì, sono racconti molto letterari, dove a farla da fil rouge, oltre a una varietà di registri che spazia dall’elegiaco al funambolico, dall’allucinatorio all’onirico, dal surreale al grottesco, si avverte con fiera potenza il desiderio di dimostrare la sua intima passione di narratrice. Una potenza narrativa a tratti non del tutto affinata – non tutti i racconti poterono in effetti essere sottoposti a una dettagliata revisione – ma che rivelano come, appunto, dietro una scrittrice sociologica per come la Blixen si rivelò con il suo libro maggiore, La mia Africa, possa annidarsi – o anzi, debba annidarsi – la propensione alla pluralità degli stili, la capacità di misurarsi con linguaggi e ambientazioni del tutto irrelati da quelli attraverso i quali generalmente individuiamo il «suo» linguaggio (o appunto, se vogliamo, il suo stile).
Con una sorprendente inclinazione verso il registro gotico, lungo tutta questa dozzina di racconti noi ritroviamo insomma, per così dire, non tanto la Blixen africana ma in tutta la sua forza espressiva la Blixen danese, la Blixen scandinava, in cui a farla da padrone è il mistero, l’oscurità, il sogno e gli incubi di chi si misura con le sub-realtà dell’inconscio, dell’inquietudine, dell’immaginazione e del turbamento esistenziale.

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