Nella Vienna dei primi decenni del secolo scorso, che nell’atmosfera del finis Austriae e del tramonto della monarchia asburgica si era trasformata – secondo le celebri parole di Karl Kraus, poi riprese da Albert Ehrenstein – nella “stazione meteorologica della fine del mondo”, Alfred Polgar ha vissuto con la medesima intensità di altri scrittori e letterati la bancarotta dei valori ottocenteschi e la crisi del linguaggio (“l’indecenza dei segni”, come l’aveva definita il suo concittadino Hofmannsthal).
Si può anzi dire che la simpatica definizione “arciviennese”, che il compianto Italo Alighiero Chiusano aveva coniato per Arthur Schnitzler, può essere tranquillamente utilizzata anche per Polgar, perché pochi come lui si sono identificati con la fisiologia della città, il suo straordinario ritmo e il suo originalissimo respiro. Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva parlato della Vienna di quel preciso scorcio come di «un possibile apice della civiltà». Non si può davvero dargli torto.

Vienna tra ieri e oggi, sulle orme di Stefan Zweig
Laser 06.11.2015, 10:00
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Esattamente come gli altri esponenti della grande cultura viennese entre deux guerres, anche le sue credenziali poetiche e la sua produzione letteraria nascono dalla consapevolezza che la realtà, ormai ridotta in atomi e frammenti, non può essere descritta, o comunque non può essere l’oggetto di una narrazione compiuta e riconducibile al cosiddetto “grande stile” dei monumentali romanzi dell’Ottocento. Partendo dallo stesso assunto, Polgar trae però conseguenze molto diverse rispetto, ad esempio, all’utopia del “romanzo totale” di Musil e Broch oppure ai racconti psicologici di Schnitzler e Zweig, molto influenzati dalle teorie di Freud.
Se infatti la realtà è un mero insieme di frammenti, anche la scrittura che vuole dirla, o almeno circoscriverla, deve trasformarsi in frammento. I suoi fratelli spirituali, in questo senso, più che i grandi romanzieri, sono i cultori della “prosa breve” come il concittadino Peter Altenberg (ma non bisogna dimenticare gli appuntiti aforismi di Karl Kraus) e soprattutto Robert Walser, sul quale Polgar ha scritto non a caso alcune pagine molto penetranti. E’ suo, in particolare, uno dei giudizi più centrati sull’autore de La passeggiata e dei cosiddetti “pezzi in prosa”. Ha scritto infatti Polgar recensendo la raccolta Große kleine Welt, uscita nel 1937: «Walser osserva il mondo con gli occhi di un bambino, per il quale tutto assume le connotazioni di una favola. Una favola triste, oppure divertente, oppure triste e divertente nello stesso tempo. Ma lo osserva anche con gli occhi di un saggio, al quale non sono ignote le segrete connessioni». C’è inoltre qualcosa di scopertamente autobiografico in quest’altra considerazione: «Walser ha il coraggio della semplicità, che significa anche coraggio della normalità».
Pur non paragonabile ai massimi protagonisti di quell’irripetibile stagione letteraria, Polgar rimane insomma uno scrittore di assoluto pregio ed estrema originalità. Non si esagera, anzi, dicendo che proprio la sua capacità di restituire in maniera frammentaria la frantumazione del reale lo avvicina ai nomi più celebri e giustamente celebrati. Nato a Vienna nel 1873, Polgar è giunto ai lettori italofoni soprattutto grazie a due volumi pubblicati da Adelphi, Piccole storie senza morale (1995) e il gustoso nonché divertentissimo Manuale del critico (2000). Il medesimo editore, in tempi più recenti, ha dato alle stampe Marlene - Ritratto di una dea, un testo che anche in lingua originale è uscito postumo (scritto tra il 1937 e il 1938, ritrovato casualmente nel 1984, è stato pubblicato per la prima volta nel 2015) ed è dedicato – ma sarebbe più giusto dire: consacrato – all’attrice per eccellenza di quell’epoca, Marlene Dietrich, che nelle densissime pagine di Polgar si profila non solo e non tanto come regina del palcoscenico e poi dello schermo, ma anche come icona e cifra simbolica di un’intera civiltà e del suo splendido declino (il “mondo di ieri”, per riprendere il titolo dell’autobiografia di Zweig).
La folgorazione, perché tale la si deve definire, avviene nel 1926, quando ai Kammerspiele di Vienna va in scena una commedia intitolata Broadway, storia piuttosto dozzinale di gangster, pupe e morti ammazzati. In mezzo al pubblico c’è anche Polgar, che tra le «cinque signorine elegantemente svestite» che ballano sul palcoscenico ne nota una «di strana e avvincente bellezza», dotata di una «baldanzosa bravura» nell’interpretare la parte che le è stata assegnata: «Era la seconda da sinistra. Fu lei che, nel momento critico, alzò il revolver e abbatté quella canaglia di un gangster. Sparò da una scala che si avvitava a chiocciola nello sfondo della scena. Compiuta l’impresa, resto lì gettando sulla vittima uno sguardo in cui si mescolavano disinteresse, curiosità infantile, stanchezza e la sensazione di una fatale incapacità di capire».
La “signorina” in questione, allora venticinquenne, si chiamava Marie Magdalene (poi contratto in “Marlene”, un «nome melodico e aggraziato») Dietrich, era nata nel quartiere berlinese di Schöneberg e nel 1930 avrebbe interpretato il primo dei suoi tanti indimenticabili personaggi: la conturbante baiadera Lola Lola ne L’angelo azzurro, il celeberrimo film di Joseph von Sternberg tratto dal romanzo Il Professor Unrat di Heinrich Mann. Una dozzina di anni dopo, quando Polgar mette per iscritto le impressioni di quella memorabile serata, la Dietrich è già un’attrice di fama mondiale ed è l’immagine vivente dell’opera d’arte, con un viso «che parla non solo all’occhio ma anche allo spirito» e una voce nella quale «verità e illusione coesistono in maniera sconcertante», esercitando «una fortissima magia erotica» che tuttavia non è quella della semplice “vamp”, ma piuttosto qualcosa di incorporeo e quasi metafisico.
Polgar lo spiega in maniera molto originale, ricorrendo a un paragone sospeso tra filosofia e teologia (una teologia molto laica e terrena, beninteso): «Per noi il fenomeno Dietrich aveva già nome e sostanza prima ancora di aver preso forma definitiva e rivelato le sue potenzialità. “Nomina ante res”, dicevano gli Scolastici, le parole precedono le cose». Ma l’ammiratore si spinge perfino oltre nel circoscrivere l’unicità di “Marlene”: «Dei grandi dell’arte dello spettacolo si dice che sanno infondere il suono e il colore della vera vita al personaggio che incarnano. La Dietrich, nelle sue interpretazioni più alte, si spinge un gradino più su nella rappresentazione di queste realtà e verità. In lei, la vita vissuta appare come un ruolo assegnato dal fato quale disegno drammatico e irrevocabile». Il personaggio della Dietrich, considerato all’interno di una simile prospettiva, fornisce peraltro una risposta all’interrogativo piuttosto insidioso che Polgar si era posto nel Manuale del critico: «Come si spiega che sul palcoscenico la realtà possegga un fascino di cui è totalmente priva quando è lontana dalle scene?».
E’ soprattutto leggendo Marlene che si capisce fino a che punto sia ingiusto considerare Polgar uno scrittore minore, in quanto portato più allo schizzo che al racconto ampio ed articolato. Non soltanto perché si tratta del suo testo più lungo e maggiormente strutturato, a mezza via tra il saggio, il memoir e il racconto, ma anche perché nelle pagine di Marlene, con la sua consueta leggerezza di tocco (Musil lo aveva definito «un giocoliere della parola», perché le sue frasi assomigliano davvero a fraseggi), Polgar riesce ad avvicinarsi al mistero dell’espressione artistica e fornisce il preciso quadro di un periodo storico. Ritraendo Marlene Dietrich, infatti, Polgar ritrae la vecchia Vienna (e la vecchia Europa) e ne prende idealmente e concretamente congedo. Nel 1927, l’anno dopo la “folgorazione”, Polgar abbandona l’ormai ex capitale asburgica e si trasferisce a Berlino, dove vive sei anni, poi torna brevemente a Vienna, ma all’avvento del nazismo è costretto ad abbandonarla per sempre.
Durante la seconda guerra mondiale vive negli Stati Uniti, poi si trasferisce a Zurigo, dove muore nel 1955, al termine di un esilio che ricorda da vicino quello di Broch, Zweig, Roth e soprattutto Musil, del quale fu paterno e fraterno amico. La sua vita, negli ultimi anni, assomiglia molto a quella dell’attore meravigliosamente ritratto in un breve schizzo contenuto nel Manuale del critico, che se ne sta rannicchiato in un palco e guarda altri attori che calcano quelle tavole che un tempo furono sue: «Un morto che, dall’alto, assiste alla propria vita terrena».
La sua opera è composta di recensioni, elzeviri, critiche teatrali, brevi brani in prosa e quadri d’ambiente, “piccole storie senza morale” scritte a margine (An den Rand geschrieben, come dice il titolo di una sua antologia) che nascono da una percezione della realtà che lo stesso Polgar – anche in questo, vicinissimo a Robert Walser – ha simpaticamente espresso in questi termini: «La vita è troppo breve per la forma lunga, è troppo fuggevole perché lo scrittore possa indugiare in descrizioni e commenti, è troppo psicologica per la psicologia, troppo romanzesca per il romanzo; la vita fermenta e si decompone troppo rapidamente per poterla conservare in libri ampi e lunghi».

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Si potrebbe dire, in altri termini, che Polgar preferisce sempre la litote all’iperbole, il levare al battere, non solo perché a suo modo di vedere i romanzieri di professione «sono gente malvagia» («Il destino che gli tocca, lo digeriscono in un battibaleno e lo rimettono in circolazione rilegato o in brossura»), ma soprattutto perché non si riesce a capire a cosa servano «i fedeli, gli altari e i sacerdoti, se ormai gli dei se ne sono andati». Anche Marlene, il suo libro più lungo e apparentemente meno “alla Polgar”, non si sottrae alla regola ed è forse una delle massime espressioni del principio di poetica enunciato da Robert Musil, quasi ad epitaffio della vecchia Austria (e non solo): «Oggi la vita non ha testo ma solamente aggiunte, commenti, al massimo istruzioni per l’uso».
Una “piccola storia senza morale”, appunto, scritta al margine di un centro che non esiste, come l’Azione Parallela ne L’uomo senza qualità di Musil, oppure il leggendario “palco vuoto dell’imperatore”, che secondo Broch costituiva la cifra simbolica di una realtà disgregata e quindi ineffabile. Ecco perché Musil aveva detto che Polgar «racconta l’anima dell’uomo contemporaneo, che da tutti è dolorosamente data per dispersa» Lo stesso Musil, in un’occasione, aveva chiesto a Polgar (che diceva di «battersi per l’apparenza e l’illusione contro la realtà») quale fosse in definitiva la sua visione del mondo, ricevendo la seguente risposta: «Nessuna. Io di tutto questo non capisco niente, sono pervaso dalla mancanza di senso e di valore del mio stesso fare. Ho una sola idea fissa: esistono soltanto le idee flessibili».