Lo scrittore egiziano-statunitense Omar El Akkad, il 25 ottobre 2023 ha pubblicato un post con le seguenti parole: “Un giorno, quando sarà sicuro, quando non ci sarà alcun rischio personale nel chiamare le cose con il loro nome, quando sarà troppo tardi per ritenere qualcuno responsabile, tutti diranno di essere stati contro”. Il post è stato visualizzato più di dieci milioni di volte, e poi è diventato il titolo di un’opera che denuncia l’ipocrisia e la paura di esporsi dell’Occidente dinanzi allo sterminio programmatico che si sta compiendo a Gaza. Il 5 giugno il libro è uscito nella traduzione italiana curata da Gioia Guerzoni per Feltrinelli.
El Akkad, durante gli incontri con la stampa, parla con voce sofferente, ma tenace: «Sono un po’confuso – dice – sento di esistere in un mondo che ha sempre meno senso per me. Sono passati venti mesi, in cui ogni giorno mi sono svegliato vedendo le cose più orribili che si possano immaginare. E mi è stato detto, dai leader che abbiamo eletto, che tutto questo è giusto e necessario e deve continuare. Non credo sia possibile, nemmeno per l’essere umano più inconsapevole della terra, non sentirsi esausto, sopraffatto, profondamente disconnesso, dall’idea che tutto questo venga fatto in nostro nome, continuamente.»
Gaza. Un giorno tutti diranno
Laser 04.06.2025, 09:00
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Perché la parola genocidio scandalizza tanto, secondo lei?
A mio avviso le ragioni sono almeno due, anche se poi probabilmente potremmo contarne altre. La prima è che la parola genocidio non esiste invano, è un obbligo legale che deriva dall’origine stessa di questo termine. Tutti i paesi del mondo che hanno aderito agli accordi internazionali sul genocidio sono obbligati a fare qualcosa. Se avessi detto che in qualsiasi altra parte del pianeta un’intera popolazione viene sistematicamente sradicata dalla propria terra e alcuni politici si vantano della necessità di uccidere ogni uomo, donna e bambino, non credo avrebbero avuto problemi a usarla. La seconda è che molte persone e leader di varie istituzioni politiche, culturali, accademiche, vedono la situazione per quella che è, ma hanno paura delle conseguenze personali che potrebbero derivare dal fare ricorso a questa parola. Ora, per me è facile usarla perché sono essenzialmente disoccupato, vivo in mezzo al nulla, scrivo un libro ogni tot anni e forse le conseguenze per me sono diverse.
Ma la parola genocidio ha un significato, e se nella mia mente è calzante per definire questa specifica situazione e non la uso perché ho paura, non posso più definirmi uno scrittore, perché sto cambiando il senso alle parole e ciò è in contrasto con il significato stesso del mio lavoro.
La parabola raccontata nel suo libro e riassunta così bene già dal titolo pare si stia concretizzando: per più di un anno i governi occidentali non hanno fatto che assecondare la sete di vendetta del governo israeliano, poi qualche settimana fa qualcosa è cambiato, seppur con immenso ritardo e tanta timidezza. Che ne pensa lei di questo cambio di passo?
Da una prospettiva puramente pragmatica, penso che questo cambiamento sia reale e positivo, nel senso che qualsiasi cosa ci porti anche solo un centimetro più vicini a porre fine a questo massacro è positiva in termini morali. Non credo nemmeno per un secondo che qualcuno dei politici che stanno iniziando a cambiare atteggiamento si sia improvvisamente reso conto che ciò che sta accadendo è negativo. Penso stiano prendendo una decisione politica calcolata, basata sulla crescente pressione dei loro elettori. Questo, anche se è moralmente fraudolento, è comunque positivo perché dimostra che queste persone possono essere influenzate dalla pressione e dalla rabbia del popolo che le ha elette.
«La narrazione dell’immigrazione in cui fuggi dagli orrori di una società per venire in un posto migliore, un paese che non ha l’obbligo di accettarti ma l’ha fatto, richiede una gratitudine perenne, ed esiste questa gratitudine. Ma la narrazione non fa spazio alle tante forme in cui essa si manifesta, e che spesso sono poco evidenti. Non nutro alcun rancore nei confronti dell’immigrato che sventola la bandierina mentre guarda sfilare la parata del giorno dell’Indipendenza, che dice in modo schietto e sincero «Amo questo paese», ma non giudico nemmeno l’immigrato che si dimostra del tutto impassibile e pragmatico nei confronti dello stato o nazione che lo ospita, così come le persone che gestiscono quello stato o nazione sono regolarmente impassibili e pragmatiche nei confronti degli immigrati. Non ho nessun problema con l’immigrato che dice in modo schietto e sincero: «Non amo questo paese». Non amo nessun paese, essendo il patriottismo prerogativa di un tipo completamente diverso di vita rispetto a quella che il destino mi ha assegnato.
Vivo qui perché è sempre meglio vivere nella parte del mondo da cui i missili vengono lanciati. Vivo qui perché ho paura».
Omar El Akkad, Un giorno tutti diranno di essere stati contro
Nel suo ultimo libro scrive che l’ambizione dei genitori delle vittime del colonialismo è far sì che i propri figli crescano il più possibile simili ai vincitori, adottandone lingua, valori e costumi, e che lei in qualche modo, è proprio l’emblema di questo. Chi è allora Omar El Akkad? E come si convive con questa eterna dualità?
L’idea di essere senza radici credo sia al centro del mio libro, ma anche al centro di ciò che sono come essere umano. Ho lasciato il paese in cui sono nato all’età di cinque anni, e da allora sono stato ospite nella terra di qualcun altro. Devo dire che per la maggior parte della mia vita sono stato piuttosto orgoglioso di parlare con accento americano e di conoscere così bene la cultura della parte dell’Occidente in cui vivo, e sono stato premiato all’infinito per questo. Solo di recente ho dovuto rivalutare il prezzo da pagare, perché se il prezzo da pagare per essere la persona che sono è qualche episodio di razzismo occasionale, oppure a volte la richiesta di parlare a nome di ogni arabo e musulmano, mi sta bene, posso accettarlo. Quello che non posso sopportare è che decine di migliaia di bambini morti siano stati uccisi con i soldi delle mie tasse e che mi venga chiesto di fare il tifo per questo, o al massimo di guardare altrove. Non posso farlo.
Quando penso a questo libro non penso di voler fare cambiare idea a nessuno. Non mi interessa. Per me il retrogusto che definisce il libro è quello di una profonda incertezza, perché per la stragrande maggioranza della mia vita ero orientato verso un certo modo di stare al mondo e all’improvviso mi sono sganciato da questa modalità e non so chi sono da quell’altra parte.
Nel suo ragionamento, l’abominio che l’esercito israeliano sta compiendo a Gaza e la deumanizzazione del popolo palestinese, ridotto allo stremo, appaiono come il tassello finale di un percorso di umiliazione che migliaia di immigrati, musulmani, arabi di pelle scura, affrontano nella loro vita da esuli.
È la conclusione di un mio percorso di pensiero, e credo che l’avrei raggiunta molto prima se fossi stato una persona più coraggiosa, perché ci sono stati molti momenti nella mia vita in cui ho visto cose che mi hanno portato alle stesse conclusioni. Sto pensando in particolare all’Afghanistan, dove ho visto come venivano trattati i soldati afgani rispetto a quelli della Nato, o a Guantanamo, dove è stato creato dal nulla un sistema legislativo completamente nuovo e palesemente illegale per condannare persone innocenti. In precedenza compartimentavo questi momenti dicendo «una cosa del genere sta accadendo solo qui e ora, non è indicativa di qualcosa di più grande»… Credo di essermi sempre sentito un po’ disconnesso. e questo ha influito su tutto ciò che ho scritto. Non ho mai sentito di poter guardare a una particolare geografia o a una particolare cultura e dire: «Questa è mia».
Sapete, nella maggior parte degli eventi nel mondo occidentale vengo presentato come Omar El Akkad. Non è il mio nome. Mi chiamo Omar Mohammed Lahed. So che è impronunciabile in inglese e ho imparato a conviverci. Ma il massacro di Gaza rappresenta per me il punto di rottura in cui la lista delle cose con cui posso imparare a convivere è giunta al termine. Non riesco più a essere la persona di prima.
Nel periodo in cui facevo il reporter dall’Egitto avevo iniziato a scrivere American War, e in una scena del libro avevo descritto gli Stati Uniti, al completo collasso istituzionale, che ricevono la visita del presidente di un nuovo impero panarabo, che celebra in un discorso ufficiale il desiderio condiviso da entrambe le nazioni, di godere dei diritti democratici di base. Anni dopo aver venduto il manoscritto, uno degli editor mi ha chiesto di rivedere quella parte, sostenendo che il discorso sarebbe stato più efficace se non fosse stato così apertamente disonesto, se fosse sembrato che il capo di quell’impero avesse creduto, almeno in minima parte, alle banalità che gli uscivano dalla bocca. Avevo copiato il testo, praticamente parola per parola, dal discorso intitolato Un nuovo inizio che Barack Obama aveva tenuto al Cairo nel 2009.
È pura fiction, lo so bene: il romanzo, il discorso che contiene. Ma finché l’Occidente insiste su un’auto-rappresentazione ad ogni costo virtuosa, bisogna ricordare che non sono la crudeltà o l’indifferenza a lasciare sconvolti. La cosa sconvolgente è questo perenne uso della virtù come paracadute, questo recitare eloquenti discorsi che esprimono una profonda preoccupazione per i diritti umani e la libertà, ed esigono che chi li calpesta sia ritenuto responsabile. La cosa sconvolgente è il modo in cui ogni ideale evapora appena minaccia di valicare i confini di discorsi e dichiarazioni, nel momento in cui rischia di entrare in conflitto con un interesse personale, anche minimo.
La prima guerra a cui lei ha assistito, seppur indirettamente, è stata la prima guerra del Golfo, quando all’epoca abitava in Qatar. Gli americani emigrati si insediarono lì fregiandosi di un nuovo status, quello di expat, ed esprimendo da subito il divario enorme tra loro stessi, i primi, gli umani, e gli stranieri provenienti dall’Asia profonda, gli ultimi, quelli che lei stesso definisce subumani. In che maniera l’ha formata quell’esperienza?
Una delle cose più istruttive della prima guerra a cui ho assistito, quella del Golfo, è l’idea di distanza, il capire come abbia influito sulla mia interpretazione di quell’evento.
Io e la mia famiglia eravamo seduti a casa, a Doha, con i vetri sigillati, nel caso fosse scoppiata una bomba. Al lavoro a mio padre erano state consegnate delle maschere antigas, nel caso avessero lanciato un attacco chimico. Era tutto così assurdo. In Qatar non è mai successo nulla, ma la distanza era il prisma attraverso il quale vedevamo tutto. Guardi le bombe che vengono sganciate e sai che ci sono persone a cui sono dirette. Eppure, nella parte posteriore della tua testa stai pensando: «Non sono io. Non stanno per colpire qui.» Questo mi ha dato una maggiore comprensione di come uno schema simile si possa ripetere in qualsiasi situazione.
L’idea che la sopravvivenza dipenda dalla capacità di esercitare il dominio su qualcun altro è qualcosa di primordiale, innato nell’essere umano, o nasce piuttosto con il colonialismo occidentale nelle sue varie forme?
Mi è sempre sembrato che la natura fondamentale del colonialismo sia la sua insaziabilità. Quando i miei rappresentanti eletti mi dicono: «Non preoccuparti, quello che vedi sta accadendo a quelle persone laggiù, ma non arriverà mai a casa tua», ecco, io penso subito a due cose. Prima di tutto, che un giorno arriverà sicuramente alla mia porta, visto che è sempre stato così. Secondo, che anche se non dovesse arrivare, è comunque intrinsecamente sbagliato e malato.
È stato sconvolgente assistere alle atrocità degli ultimi venti mesi, mi ha cambiato completamente, ma per quanto sia profonda la mia consapevolezza, è qualcosa che so e di cui parlo dal privilegio di una grande distanza: non è la mia discendenza a essere stata cancellata, non è il mio quartiere a esser stato raso al suolo. Penso che abbiamo abdicato a troppe responsabilità, e dato troppo potere a sistemi che si basano sull’appropriazione infinita. E questo è il risultato naturale.
Il libro racconta il momento che ha portato suo padre a decidere di andarsene per sempre dall’Egitto: un giorno, durante un coprifuoco, viene fermato da alcuni soldati che prima gli chiedono i documenti e poi glieli stracciano, prendendosi gioco di lui. Perché quell’episodio l’ha impressionata tanto?
Torno spesso a quel momento perché è rappresentativo di qualcosa a cui penso molto, ovvero alla malleabilità e alla flessibilità nell’uso delle regole, delle leggi, delle norme. Quando si cresce in un posto come l’Egitto c’è consapevolezza del fatto che esistono regole e principi. Ma se il sistema di potere non ha voglia di aderirvi o decide semplicemente di punire qualcuno per qualcosa, fa presto a ignorarle o a sovvertirle. Una delle ragioni per cui sono sempre stato attratto dall’Occidente come idea più che come luogo è perché credevo fermamente che non si potesse verificare una strage come quella in corso a Gaza in questa parte del mondo e che, per quanto le cose andassero male, ci sarebbero comunque state delle regole e un ordine che non potevano essere violati. Questo è uno dei motivi per cui questo particolare momento è così incredibilmente frustrante e irritante per me. So che esistono regole sui crimini di guerra, sul bombardare ospedali, uccidere donne e bambini, come pure i diritti umani e l’ordine internazionale, ma vengono continuamente lacerati, buttati via.
Gaza non è un’anomalia. Quello a cui assistiamo può accadere ovunque, e se non ci opponiamo, continuerà ad accadere.
«Nella mia vita adulta, che è cominciata più o meno l’11 settembre, nessuna paura ha superato quella dei terroristi, nel mondo occidentale. È un totem, un costrutto così potente che non solo ha permesso di giustificare senza domande né conseguenze uno dei più grandi massacri nella storia moderna, ma ha costretto a un’esistenza binaria interi gruppi di persone. Una delle conseguenze più dannose e durature degli anni della guerra al terrorismo è la totale eliminazione dell’ovvia questione morale della non-violenza: il ragionamento secondo cui la violenza, in qualsiasi forma svilisce e segna il fallimento istantaneo di tutte le persone coinvolte è molto più difficile da sostenere quando lo Stato è regolarmente implicato in violenze di massa, sia contro i civili sia contro i combattenti, o le approva. Invece la questione della non-violenza si fa pragmatica, e nel modo peggiore: lo Stato vuole la violenza, perché in quel campo di gioco ha tutti i vantaggi, dalle armi più potenti all’immunità totale, al privilegio del vittimismo perenne».
Per anni l’Occidente per lei ha simboleggiato la libertà di essere trattati in modo equo, a prescindere dalle tante violenze, dai massacri di cui l’America si era macchiata. Lei stesso scrive nel libro: «Pensavo che la struttura portante potesse salvarsi, fino all’autunno 2023, fino al massacro». Questo il resoconto di una frattura, il resoconto di una fine. C’è un episodio che le ha fatto dire: «Basta, adesso è davvero troppo»?
L’episodio che mi ha cambiato, in un modo da cui non posso più tornare indietro, è l’audio di Hind Rajab, la bambina di sei anni che implora per la sua vita. Ancora non riesco a superarlo. L’aver sentito questo essere umano della stessa età di mia figlia, supplicare che le fosse risparmiata la vita, poco prima che i soldati israeliani sparassero 350 proiettili contro la sua auto e uccidessero i medici che stavano cercando di salvarla... Ho raccontato questa storia più e più volte, e ogni volta è difficile per me capire come si possa esistere in un mondo che permette che una cosa del genere accada e rimanga impunita. O in alcuni casi, che non venga proprio riconosciuta, come se non fosse mai accaduta.
Ho trovato molto illuminante la distinzione che fa tra diverse forme di resistenza al colonialismo, a partire da due episodi simili: quello di Aaron Bushnell, il soldato americano che nel febbraio 2024 si dette fuoco di fronte all’ambasciata israeliana a Washington dopo aver pronunciato le parole «Free Palestine». E quello di Mohamed Bouazizi, il giovane venditore ambulante tunisino che nel 2010, dopo essersi dato fuoco anche lui, divenne il simbolo delle primavere arabe. A Bushnell, in brevissimo tempo sono stati imputati seri disturbi mentali. L’altro, a migliaia di chilometri di distanza dalle sedi del potere, è stato trasformato in un eroe. C’è allora una forma di resistenza più efficace di un’altra, secondo lei?
Quando si è soggetti al colonialismo non esiste una forma corretta di resistenza. Se si resiste con la violenza, si viene tacciati subito di terrorismo e si viene accolti con una violenza dieci volte maggiore. Se si resiste attraverso il boicottaggio, si è illiberali e si viola la libertà accademica. Se si resiste con la narrazione, si è sottoposti a censura o si viene accusati di ogni tipo di affiliazione terribile, con lo scopo ancora di farti tacere. L’unica forma di resistenza accettabile è morire. Meglio se facendo poco rumore, magari in silenzio. Il modo in cui ho iniziato a pensarci non è tanto in termini di quale forma sia più accettabile o efficace, ma piuttosto rispetto a dove l’equilibrio di potere è meno inclinato a favore dello Stato. Nell’arena della violenza, la simmetria è sempre a favore dello Stato, perché ha le armi più grandi, e ha la forza propagandistica e narrativa per usarle.
Mentre ad esempio l’arena della Resistenza attraverso il disimpegno, il boicottaggio tramite ciò che non compri e ciò che non visiti, è molto meno inclinata a favore dello Stato, perché lo Stato non ha idea di come punirti per ciò che non stai facendo. Tanto vale impegnarsi nella forma che dà più potere, perché alla fine la resistenza è molto più di un atto: è una conseguenza, è un dialogo. E non ho intenzione di avere questo dialogo alle condizioni di qualcun altro.
Ha raccontato che questo libro le ha rovinato la vita. In che senso?
Ci sono gruppi letterari che non mi inviteranno mai più a tenere una conferenza. Ci sono feste a cui non verrò mai più invitato. Su internet si dicono cose terribili su di me. Ci sono relazioni nel mondo della letteratura che probabilmente ho compromesso per sempre. Credo che questo libro abbia distrutto alcuni aspetti della mia vita a cui prima avrei tenuto molto. Una versione precedente di me, consumata dall’ambizione, dalle prospettive di carriera e da tutto il resto, sarebbe stata inconsolabile. Ma in questi giorni, cose del genere non mi interessano più.
l’Occidente ha sorpassato la linea della decenza. È possibile guarire da tutto questo? Se il vecchio mondo sta morendo e quello nuovo fatica a emergere, cosa rimane?
Penso che o smantelliamo questi sistemi di sfruttamento senza fine – sistemi di colonialismo e capitalismo, che legano ciò che accade in Palestina a ciò che accade in Congo, e in altri innumerevoli luoghi del pianeta saccheggiati all’infinito – e istituiamo sistemi basati sull’idea di condivisione, sul prenderci cura gli uni degli altri, oppure finiremo anche noi nell’oblio.
Continuiamo a estrarre risorse, ad appropriarci di beni di altri, con livelli di violenza sempre maggiori. Finché non solo avremo spazzato via una parte sostanziale degli esseri umani da questo pianeta, ma arriveremo al punto da renderlo inabitabile.
«Un giorno finirà, quando finalmente non ci sarà il modo di preservare i propri interessi se non agendo, se non con la volontà potente di agire. Le stesse persone che hanno compiuto il massacro, finanziato il massacro, giustificato il massacro e voltato le spalle al massacro, si vanteranno di avere fatto la cosa giusta. È molto importante fare la cosa giusta, alla fine. Quando arriverà il momento di attribuire le colpe, la maggior parte dei colpevoli non ci saranno più da tempo. Tanti fingeranno di essere sconvolti dalla gravità della situazione. Come potevano saperlo?
Ci sarà sempre chi dirà che è stato tutto opera di pochi malvagi, che hanno ingannato il resto di noi brave persone. Qualsiasi cosa, pur di non affrontare la possibilità che questi massacri fossero il risultato di un sistema che funzionava esattamente come previsto, non tanto di una stortura del sistema. Per molti questo sarà sufficiente: un ritorno a una versione di sudditanza più tollerabile. Ma per molti non basterà.
E la classe liberale, che aveva accettato controvoglia le misure più patetiche, scoprirà che un battaglione di persone che prima avrebbe potuto abbracciare i suoi ideali ha deciso di non farlo più. Non dopo quello che è stato fatto, quello che abbiamo visto, quello che non si può dimenticare.»