Letteratura

La storia di un’amicizia necessaria, come la montagna

“Galel”: romanzo d’esordio della scrittrice svizzera Fanny Desarzens, premio svizzero di letteratura 2023, è stato tradotto in italiano da Carlotta Bernardoni-Jaquinta per Capelli Editore

  • 1 ottobre 2023, 10:34
  • 5 novembre, 11:30
04:10

Galel, intervista all’autrice

Cristina Savi 02.11.2024, 19:00

  • gabrielecapellieditore.com
Di: Valentina Grignoli 

Galel (Éditions Slatkine, 2022), primo romanzo della scrittrice vodese Fanny Desarzens, libro vincitore del Premio svizzero di letteratura 2023, è ora disponibile in italiano. Carlotta Bernardoni-Jaquinta lo ha tradotto per Gabriele Capelli.

Ogni anno, in agosto, l’amicizia di tre uomini, Paul, Jonas e Galel si rinnova alla capanna ‘Baita’. Sono momenti preziosi, rari, quando i tre amici si ritrovano e godono della reciproca presenza senza aver bisogno di parlare. Basta la montagna, sulla pelle e negli occhi. Paul è il capannaro, Jonas e Galel sono due guide alpine. Amano il loro mestiere, che esercitano d’estate, senza porsi troppe domande. Durante l’inverno la loro vita si svolge monotona in pianura, vivono in attesa delle montagne, quando accompagnano gruppi di persone per vie spettacolari, tra le cime, e si ritrovano la sera attorno al fuoco.

Galel è sempre l’ultimo ad andare a letto. Una luce particolare lo abita. Solo fatto di stargli accanto fa stare bene, perché in lui c’è una forza particolare, come un sole capace di ispirare gli altri.

Una mattina, nei pressi del rifugio, Galel si fa male al ginocchio mentre aiuta un membro del suo gruppo a risalire da una rupe. Sembra un nonnulla, ma la ferita si diffonde a poco a poco per tutta la gamba, impedendo alla guida di continuare il suo lavoro anno dopo anno. Limitando così il suo accesso alle amate cime. Questo fatto modificherà progressivamente l’equilibrio tra i tre uomini che però, nel corso del tempo, impareranno a conoscersi meglio e a trovare un nuovo modo per stare insieme.

Galel di Fanny Desarzens è stato pubblicato da Slatkine nel 2022. È un romanzo contempaltivo, che fa appello a una scrittura organica e minerale, per descrivere la montagna e l’atto del camminare. C’è molto Ramuz – scrittore guida dell’autrice – ma anche l’esperienza di Fanny unita a una poetica personale. Siamo immersi, nella lettura, in queste montagne immaginarie dai nomi simbolici, conquistiamo le vette, attraversiamo le vallate, guadiamo i ruscelli e sentiamo le pietre scricchiolare sotto i nostri passi, accompgnati dall’autrice, che con sguardo quasi cinematografico, ci accompagna alla scoperta di un mondo di silenzi, forze e condivisione.

Nel 2023 Fanny Desarzens ha ricevuto il Premio svizzero di letteratura, e il Premio Terranova della fondazione Schiller. È diplomata in Arti visuali alla Haute Ecole d’art e design di Ginevra e vive a Losanna. Dopo alcuni racconti apparsi in riviste letterarie, Galel è il suo primo romanzo pubblicato.

Ho incontrato Fanny a Soletta il mese di maggio scorso, poco prima che ricevesse il premio dell’Ufficio federale della cultura.

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Intervista a Fanny Desarzens

RSI Cultura 26.09.2023, 11:43

Il tuo modo di scrivere pare quello della camminata in montagna, semplice, contemplativo, ritmato, rude, minerale, organico. C’è sempre una tensione sul fondo, anche quando sentiamo la ripetizione di parole e azioni. Da dove viene questa tua voce, quando e come è nata, quali sono le sue influenze? Sembra sorgere naturalmente come un piccolo ruscello d’alta montagna.

FD: È difficile da dire. Io penso che nella scrittura bisogna che la forma e il contenuto si congiungano. Quindi ho dovuto lavorare molto la forma affinché potesse calarsi sul contenuto. Sono entrata nel racconto di Galel esattamente come si intraprende una passeggiata in montagna. Quando si inizia a camminare. Mi sono davvero immaginata in questo ritmo e ho semplicemente tradotto quello che io sento quando lo faccio. Ho voluto che fosse il più vicino possibile a queste emozioni. Volevo dare un movimento alla scrittura.

Cosa significa la montagna per te?

FD: La montagna è per me innanzi tutto un ricordo d’infanzia. Ho ereditato l’amore che provavano nei suoi confronti i miei genitori, anche se quando ero piccola detestavo camminare, lo trovavo noioso. Più tardi, a poco a poco, ho fatto mia questa passione. La montagna è un luogo d’eternità, e c’è un sentimento profondo d’umiltà, ti senti di passaggio, quando ne sei immerso, e questo mi procura un sentimento di pace assoluta. Per quanto riguarda il fatto di andarci, io sono estremamente performativa, amo camminare e oltrepassare i miei limiti, andare più veloce ma anche prendere il tempo di fermarmi. È un ritmo che mi si addice perfettamente.

Le montagne che leggiamo nelle tue pagine non esistono nella realtà, le hai inventate del tutto o solo i nomi?

FD: Un po’ tutt’e due. Ho potuto percorrere molte vie sulle montagne, che però non si trovano geograficamente negli stessi posti. Qui ho voluto unire le mie vette preferite! C’era anche il piacere di inventarsi un luogo, di creare, anche se è ispirato a luoghi esistenti. Il piacere di dare dei nomi che prima non esistevano. Mi sono immersa nella lingua romancia, perché tutti questi luoghi potessero simbolizzare qualche cosa. La loro traduzione significa molto, per la mia storia. Per esempio, c’è una frase di Christian Bobin che quando ho iniziato a scrivere è diventata fondamentale per me. Chacun a sa blessure et son trésor au même endroit. Ognuno ha la propria ferita e il proprio tesoro nello stesso posto. E per me era il punto di partenza, quando ho iniziato la costruzione del libro. Anche il colle Lavorar. Che vuol dire lavorare. C’è la Valle di Lesiun e la Valle di Tesor nel libro. Lesiun signifa ferita, Tesor tesoro. E per andare da uno all’altro bisogna lavorare. Mi sono divertita con questi nomi ed è così che è apparsa la geografia di Galel.

Un’amicizia tra tre uomini giovani e poi non più giovani, vera, pura e cruda, tangibile come possono essere le pietre. Ma ugualmente che come loro può con un terremoto cambiare forma, sbriciolarsi e poi ricomporsi.

FD: Quando ho iniziato a scrivere non credevo che avrei parlato di amicizia. Volevo raccontare la figura della Guida, spiegare cosa simboleggia, volevo racontare il camminare in montagna. Poi improvvisamente ecco che nascono accanto a Galel questi due personaggi. È diventata così una storia che parla d’amicizia. Di persone che si uniscono, si ritrovano e riconoscono che grazie alla montagna, che si vogliono bene attraverso di lei. Quando non sono nelle alture, giù in piano, non è l’amore non svanisce ma si fa più lontano e debole. È anche una questione d’identità. Questi tre perosnaggi sono veramente sé stessi nel mondo alpino, e quando questo non è possibile, c’è questo effetto di non essere più sé stessi, anche perché non si vedono. È attraverso gli altri e attraverso ciò che amiamo che siamo realmente chi siamo.

Portrait Fanny Desarzens
  • © BAK / Julien Chavaillaz

Quello che rende potente la tua scrittura trovo sia anche una certa atemporalità. Certamente leggiamo le stagioni passare, si ripetono. Ma in modo quasi simbolico. Vediamo i segni sui volti, le capanne e le baite che si svuotano e poi si ripopolano, la natura che cambia i colori. Un ripetersi e un’atemporalità che mi fa pensare a una parabola, una sorta di storia universale.

Sì. Ho voluto così. Andare al di là del tempo. Le stagioni passano, ci sono i cicli che si fanno. Ma volevo poter iscrivere questa storia in qualsiasi epoca, volevo che il lottore potesse sempre ritrovarsi nei valori e nei paesaggi descritti. E questo al di là dello stile, o della scrittura in sé. Ci sono queste cose atemporali come l’amicizia e la montagna. E  quindi non accade per caso: parlando cose che non hanno età, forzatamente anche la storia non ne ha.

Ho parlato di parabola prima. Quello che mi piace di questa storia è che non c’è morale.

No, nessuna morale. Prima di tutto, chi sono io per farla o imporla? Quello che volevo raccontare però è il anche il mio voler stare dal lato della luce. Parlare di una ferita che si ripara poco a poco, non nel modo in cui ce l’aspettiamo, ma che guarisce, comunque. Questo aspetto se volgiamo conferisce al racconto il fatto di essere una parabola. Sono molto influenzata dalla spiritualità, dalla teologia in generale. E questo si ritrova in tutto quello che faccio.

Il personaggio di Galel può essere visto in maniera biblica. Una sorta di nuovo Cristo. Come del resto le altre guide di montagna che incontriamo nel libro: il loro mestiere, la loro missione è condurre, curare, nutrire, mostrare il cammino, insegnare la montagna ai loro discepoli, con i quali la sera si condivide il pane. Ci sono rituali e azioni ben precisi.

Galel rispetto alle altre guide però ha una luce particolare, cosa ha in più?

Sì, è così. Per la luce particolare, cosa ha in più Galel? Non si pone domande. A un certo momento gli viene chiesto: e tu, perché hai deciso di fare la guida alpina? E lui risponde ‘perché sì’. Era qualcosa che volevo dire, perché anche io, quando mi chiedono perché scrivo, perché voglio essere una scrittrice, rispondo così. Sicuramente ci sono spiegazioni più profonde, ma non mi interessa. Amo quando è inspiegabile. Galel stesso è inspiegabile, perché è così semplice che non necessita spiegazioni. In questo senso intendo inspiegabile. E l’amore che prova per l’ambiente che lo circonda, per le persone, per le cose, è puro. È da lì che proviene la luce, ed è sicuro, certo, che ha un lato cristico, ma quel che amo nella figura di Gesù è proprio il fatto che fosse umano: Galel è colui che si fa male, si ferisce, rompe l’equilibrio e mette in crisi le loro vite in montagna. È il più luminoso, ma è anche quello che vacilla. Quindi cristico, sì. In tutti i sensi.

Vorrei porti un’ultima domanda, un film in chiusura, le ultime immagini. Sono immagini cinematografiche che mi arrivano spesso dalla tua scrittura: il punto di vista esterno, la messa a fuoco particolare, come una macchina da presa che va e viene, si muove tra panoramiche per poi zoommare in primi piani, una camera che segue e non segue i protagonisti, le inquadrature in sequenza. Esattamente come un film che mostra lo scorrere del tempo attraverso il montaggio. È tutto molto visivo, molto cinematografico, appunto.

Amo enormemente il cinema. Volevo diventare attrice, realizzatrice, regista. Niente di tutto questo è accaduto ma tanto meglio, quel che devo fare io è scrivere! Ma è vero che ogni volta che scrivo qualche cosa, qualsiasi cosa, c’è un film che si svolge nella mia testa e quel che faccio è ancora una voltra trascrivere quello che vedo. Io credo però che la scrittura sia il migliore dei film perché le immagini appartengono ed esistono solo per noi, e questo lo trovo formidabile!

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