Fëdor Dostoevskij una condanna a morte sulla propria pelle la visse, Jean-Paul Sartre no. Eppure anche Sartre, da grande intellettuale empatico quale era, ha saputo narrare l’incombenza di una simile condanna come se l’avesse vissuta in prima persona, nel primo dei cinque indimenticabili racconti de Il muro.
Il condannato Pablo Ibbieta, che stava combattendo a fianco degli anarchici in difesa della Spagna di Franco, condannato a morte, si ritrova in cella con altri tre compagni in attesa dell’esecuzione.
Di fronte alla fine che incombe – il plotone è previsto per il mattino successivo – trascorre parte della notte in preda ai pensieri e alle sensazioni più inquietanti, ma in pari tempo a quelle meno comprensibili. Tant’è che a più riprese si ripete, in attesa di morire: “Io voglio capire”.
Capire che cosa? Non certo le ragioni di questa condanna alla fucilazione. Queste sono evidenti: afferiscono ai suoi trascorsi di militante politico, di combattente per la libertà. Ciò che egli vuole comprendere è che cosa possa ormai significare la vita al cospetto di una morte imminente.
Sartre non ci fornisce una risposta univoca, ma tratteggia alcune linee di consapevolezza che rappresentano un vero e proprio tesoro cognitivo, una vera rivelazione morale di fronte al mistero della vita e della morte. Un passaggio riassume questa inquieta ricerca di un senso in modo particolarmente efficace: «La mia vita non valeva nulla dal momento che era finita. Mi chiedevo come avessi potuto andare in giro, scherzare con le ragazze: non avrei mosso neppure il dito mignolo se soltanto avessi potuto immaginare che sarei morto così. La mia vita era davanti a me, chiusa, sigillata come una borsa, eppure tutto ciò che vi era dentro era incompiuto.»

L’essere e il nulla. Sartre e l’esistenzialismo
Alphaville 19.09.2023, 11:05
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Il condannato a morte non solo avverte il brivido dell’immane consapevolezza di non essere più eterno, sente montare dentro di sé anche un sentimento di sfida: non soltanto nei confronti dei suoi aguzzini, ma prima di tutto sfida contro l’assurdo. Quasi che l’ultima risorsa dell’esistenza per dotarsi di un senso quando tutto è ormai perduto stia nel gioco, nell’inganno, nella beffa. Una beffa che egli rivolge ai suoi aguzzini, quando gli chiedono di rivelare il nome del luogo dove si nasconde il suo compagno di battaglia Gris, in cambio della salvezza. Ma che egli rivolge anche e soprattutto a sé stesso e all’esistenza in quanto tale: un ultimo gesto giocoso, disperato ed eroico, di sfida all’insensatezza del vivere.
Dice infatti Pablo: «Preferisco crepare piuttosto che denunciare Gris. Perché? (...) Trovavo questo piuttosto comico: era ostinazione». Una risposta che non ha niente a che vedere con quel che ci si potrebbe aspettare da un eroe di guerra o presunto tale. Una risposta che richiama al pensiero il desiderio di gabbare la vita che ci sta gabbando.
No, non è per eroismo, non è per coraggio, non è per coerenza ideologica che Pablo affronta la morte con un ultimo gesto di derisione verso i suoi aguzzini, ma per qualcosa di molto più sottile, che appunto attiene al piacere della sfida, sfida all’insensatezza del vivere quando ormai il vivere non ha più le caratteristiche del vivere.
«Sapevo bene che Gris era più utile di me alla causa spagnola, ma me ne fregavo della Spagna e dell’anarchia: niente aveva più importanza».
Questo ribaltamento degli assi – secondo cui l’unica risposta all’assurdità dell’esistenza e della morte che la conduce verso il nulla (siano questi prematuramente o meno sanciti da un plotone di esecuzione) è irreversibilmente determinata – ci rivela qualcosa di estremamente sottile dal punto di vista intellettuale, culturale ed esistenziale: l’uomo è in grado di conferirsi un senso soltanto quando l’orizzonte della sua esistenza è l’esistenza stessa, per quanto nella sua limitatezza. Ma laddove si ritrova di fronte all’ostacolo terminale e definitivo della morte, l’unica sua opzione rimane la stessa inclinazione all’assurdo che, nell’intimo della sua sostanza essenziale, è in fondo la natura più vera della vita.
Così quando l’esistenza rivela il proprio lato assurdo – e nulla come la morte può rivelare l’assurdità della vita – un solo espediente resta per fare fronte alla disperazione: giocare, appunto, a propria volta, le carte dell’assurdo.

E qui il cortocircuito del racconto raggiunge il suo apogeo. Poiché proprio laddove il protagonista pensa di beffare, nel suo affidamento all’assurdo, i propri carcerieri, è la vita stessa a beffare tutti con il proprio finale colpo di scena.
Dopo aver rivelato, mentendo, che il suo compagno di lotta si nasconde in un cimitero, egli è infatti certo che le sue ore siano ormai contate. E tuttavia, affatto imprevedibilmente, viene risparmiato dall’esecuzione e riconsegnato ai prigionieri comuni.
Perché proprio il cimitero che lui ha indicato come nascondiglio del compagno – pensando a questo modo di disorientare le loro ricerche – si rivela essere il luogo dove si nasconde realmente l’amico, riparato tra le lapidi.
Il racconto finisce con una risata che assomiglia a quella che accompagna Lo scherzo di Milan Kundera. Una risata tragica, nel cuore dell’assurdo: una risata per rivelare che qualunque destino che ci è riservato – alla fine l’unico destino che ci potrà accogliere sotto la propria ala – è deciso dal destino stesso e dalla sua vocazione a fare di sé un gioco assurdo.
La questione emblematicamente – diremmo storicamente – esposta ne Il muro ci impone una riflessione su quanto resta oggi, a 120 anni dalla nascita di Sartre, dell’esistenzialismo. Si potrebbe rispondere semplificando con una formula: Il dovere filosofico di aderire al qui e ora (hic et nunc) e di abbandonare ogni astrattismo. Un dovere che Sartre ha sottolineato soprattutto nella sua opera maggiore, L’essere e il nulla, ma che trova conferma in tutto il suo lavoro, tanto nei romanzi (pensiamo alla Nausea) quanto nelle opere di drammaturgia (pensiamo a I sequestrati di Altona o a Le mani sporche) quanto nel fondamentale pamphlet Che cos’è la letteratura? e nel cruciale L’esistenzialismo è un umanismo. Un itinerario che, nella sua irriducibile complessità, nel suo ateismo e relativismo intransigente, richiama oggi più che mai quel concetto di «modernità liquida» e quel «nichilismo di ritorno» con cui, soprattutto i giovani – pensiamo all’Ospite inquietante di Umberto Galimberti – sono sempre più intimamente confrontati.
Sartre è stato e resta infatti maestro di un atteggiamento morale che ancora ai nostri giorni (ai nostri giorni più che mai) si impone sulle grandi categorie razionali del passato, sui cosiddetti «teoreticismi filosofici», come una sorta di dovere irrefutabile: riconoscere nell’esistenza l’unico dato di realtà concreta, personale, individuale e collettiva da cui procedere, secondo le innumerevoli opportunità concesse dal libero arbitrio, per fondare la nostra cifra di senso. Un senso che non può non fare perennemente i conti con concetti quali la radicale «inspiegabilità» di gran parte dell’umano, la sostanziale natura «assurda» del vivere, la totale «irriducibilità» dell’individuo alle istanze di questa o quella ideologia astratta.
Presupposti antilogicisti e fenomenologici che, nella loro forma paradossale – necessariamente esposta alla natura paradossale del vivere – ci impongono non tanto di assecondare teorie o teoremi bensì di misurarci con concetti esistenziali irrevocabili quali scelta, progetto, decisione, responsabilità e «contraddizione». Secondo le stesse parole di Sartre:
«La dialettica dell’esistenzialismo non sintetizza gli opposti, ma li esaspera; le contraddizioni non vengono superate: restano sempre aperte, vive, operanti sulla vita dell’individuo, di cui costituiscono il dramma perenne».
Questo approccio è di un’attualità sconcertante anche sul piano politico-strategico, nel farsi contemporaneo della storia, laddove nulla sembra poter obbedire a disegni teorici precostituiti, e tutto richiedere l’intelligenza disperata di quanto il perpetuamente mutevole hic et nunc porta con sé.
Per queste e molte altre ragioni possiamo affermare, assumendo come debito il Dasein di Heidegger, che mai come oggi Sartre è maestro dell’etica dell’immediato. O, per riprendere le sue stesse parole:
«Dove l’uomo è calato nel mondo, è un esserci, dove ogni situazione è una trappola per sorci: muri da ogni parte… non ci sono vie d’uscita. La via d’uscita s’inventa. E ciascuno, inventando la propria, inventa se stesso. L’uomo è da inventare giorno per giorno».