Letteratura

Michael Bible racconta la follia americana (con le tartarughe)

“Goodbye Hotel” (Adelphi) è il nuovo romanzo dello scrittore originario del North Carolina: abbiamo parlato con lui di animali, sette e William Faulkner

  • Ieri, 17:11
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  • da Instagram
Di: Michele R. Serra 

L’ultimo romanzo di Michael Bible, da poco in libreria con Adelphi, si intitola Goodbye Hotel. La copertina è una fotografia di Simon Kerola, giovane fotografo svedese che scatta immagini oscure, malinconiche, misteriose. Si vede un ragazzo seminudo, in piedi sul tetto di un’auto, in mezzo a un campo. Chissà cosa fa, cosa guarda, cosa aspetta. Quello non si vede.

È un’immagine perfetta per dare corpo alle atmosfere bible-iane, e del resto lo racconta lui stesso, che gli piace «esplorare i luoghi dove le cose si intersecano, senza combaciare del tutto. Mi piace esplorare il mistero, ecco. Credo sia questo, ciò di cui mi piace parlare. C’è un modo per definire i contorni del mistero anche senza definirlo, senza definire la cosa in sé. Sono stato a Pompei la settimana scorsa, e ho visto i calchi delle persone che ci abitavano, dei loro corpi. Sono calchi ricavati dai vuoti lasciati da quei corpi, sono vuoti riempiti con il gesso. Quindi è chiaro che quei calchi non sono la cosa in sé, ma definiscono quello che c’era lì. Per me questo è ciò che fa la narrativa, in un certo senso: definisce l’assenza, ma non può sapere cosa fosse davvero quell’assenza.»

Già, Pompei: Bible è appena stato in tour in Italia, per presentare questo romanzo che comincia con un incidente d’auto.
Siamo nella piccola città di Harmony, North Carolina: un ragazzo e una ragazza, fidanzati, abbastanza ubriachi, corrono con l’automobile di lui nella notte. Troppo veloci, per frenare quando fi fronte a loro appaiono un uomo e una tartaruga gigante, che stanno andando a passeggio. Ecco il momento cruciale. Da lì, un balzo in avanti nel tempo, e ritroviamo i personaggi – tartarughe comprese – che ripercorrono le loro vite intrecciate dal destino. Si tratta, in effetti, di un romanzo sul destino, sul mistero della nostra esistenza insieme, sui modi in cui le succitate esistenze si intrecciano. Ma anche, e non secondariamente, di un romanzo sulla provincia americana.

Quella provincia del sud da cui proviene proprio Michael Bible, e che la racconta così: «Il North Carolina è una sorta di strana terra di confine, dove ci sono alcune delle città culturalmente più liberal degli Stati Uniti, come Asheville o Charlotte, ma poi, appena fuori, ci sono regioni molto conservatrici. E così le tendenze politiche si mescolano e si confondono.
Io sono cresciuto in una piccola città che si chiama Statesville, e vicino a Stateville c’è una cittadina ancora più piccola, che si chiama proprio Harmony. Sono posti incastonati ai piedi dei monti Appalachi. Anche la regione degli Appalachi è strana, perché lì ci sono un sacco di posti isolati dal resto del mondo. Quelli sono i luoghi in cui sono cresciuto, e ho frequentato moltissimo anche le montagne, ovviamente.
E vorrei dire che la mia è stata un’educazione tipicamente americana, potrei dire quasi un’educazione anni Cinquanta, anche se io mi sono diplomato nel 2000… però, come dire, nella mia città c’era ancora il classico drugstore con la macchina che fa i milkshake, il negozio di ferramenta… insomma, lo stereotipo americano della piccola città tranquilla. Però sotto questa apparenza si nascondeva un sacco di violenza, storie di cui la gente non sapeva niente. E questa contraddizione mi è sempre sembrata interessante.»

Che fine ha fatto questa oscurità americana, nel 2025?
Beh, penso che nell’America di oggi, l’oscurità si è come scatenata, mi sembra tutt’altro che nascosta. Ormai non è più calma neanche la superficie, non c’è più molto, di nascosto…
Però la tensione tra la tranquillità della superficie e l’orrore che si agita sotto c’è sempre stata, in America. L’America ha creato una mitologia, l’ha trasmessa al mondo; abbiamo raccontato che abbiamo questi valori, la libertà, eccetera… Eppure, dietro a tutto questo si nascondono cose oscure e sinistre di cui non ci piace parlare: pregiudizi, violenza e tutto il resto. Noi americani in generale non siamo molto bravi ad affrontarle, ma i nostri artisti lo sono, e i migliori tra gli artisti americani si sono confrontati proprio con queste tematiche. Non parlo solo degli scrittori: penso che anche molti musicisti e registi si impegnino per mantenerci, in un certo senso, onesti

Una cittadina che si chiama Harmony è una scelta perfetta. Molto ironica, in questo senso.
Penso di sì, penso che il nome Harmony sia una scelta ironica. Come ho detto, era il nome di una vera piccola città. A dire il vero, straordinariamente piccola. Non so nemmeno se si possa definire una città, non so se ci sia l’ufficio postale! Però, quando da piccolo passavo in macchina da quelle parti e vedevo il cartello, pensavo che fosse un nome molto buffo. E mi sembra uno di quei posti che possono nascondere tutta la tensione di cui parlavamo prima… La “disarmonia di Harmony”, o qualcosa del genere.

Lei ha lasciato la provincia ormai da un bel pezzo. Ha vissuto a Los Angeles, ora a New York. Perché torna sempre alla provincia, con le sue storie?
Crescendo sono sempre stato affascinato da New York e dalle grandi città, dalla cultura della vita cittadina. Roba che non esisteva, dove sono cresciuto. Al massimo avevo la tessera della biblioteca e a volte noleggiavo qualche film indipendente… Però quelle poche cose hanno avuto un grande impatto su di me, ci ho costruito sopra molti dei miei interessi culturali, e quindi, quasi da subito volevo andarmene dal paesino. Però, quando l’ho fatto, ho continuato a sentirmi in colpa per essermene andato, e non credo di poter dire di essermene andato veramente almeno fino ai 30 anni.
Forse per questo, al momento non mi sento di aver fatto abbastanza esperienze newyorchesi per scrivere di New York. Oltre al fatto che sono più affascinato dai luoghi meno raccontati. Intendiamoci, ci sono certamente molti romanzi e scrittori del sud degli Stati Uniti, ma scrivono di un Sud diverso da quello che ho vissuto io. Insomma, per farla breve il Sud continua a essere presente nella mia mente, con i suoi misteri, e non credo che quel serbatoio si sia svuotato. Dall’altra parte invece ci sono già molti grandi romanzi newyorkesi, con i quali non credo di potermi ancora confrontare. Non credo di poter competere con quei capolavori. Credo che le mie esperienze non siano rimaste ancora a marinare abbastanza tempo… quindi, forse scriverò di New York tra dieci o vent’anni.

Ecco, siamo arrivati agli scrittori del Sud. C’è una bella tradizione, dal cosiddetto Southern Gothic in giù. Si sente uno “scrittore del Sud”?
Una volta qualcuno ha detto: «Non importa quale aggettivo mettiate davanti a “scrittore”, purché mi chiamiate scrittore». Quindi, sai, se vuoi dire che sono uno scrittore del Sud, uno scrittore molto americano, o qualsiasi altra cosa, per me va bene.
Penso che ci siano delle distanze tra me e lo stereotipo del sud, ma allo stesso tempo so di essere del Sud, e so che non posso farci niente. La mia visione del mondo non è esplicitamente quella, ma forse rimane “del Sud” in qualche forma o modo che io stesso non riesco a capire. Gli scrittori del Sud sono sempre stati il mio rifugio: William Faulkner, Carson McCullers, Tennessee Williams… ma anche la musica che veniva dal Sud. Noi gente strana del Sud potevamo guardare a quegli artisti e pensare: beh, alla fine c’è qualcuno di noi che sa leggere, scrivere, e alcuni suonano piuttosto bene… anzi, davvero dannatamente bene.
Flannery O’Connor diceva che noi del Sud siamo diversi perché i nostri freak li mettiamo in mostra. E credo che intendesse dire che anche se nel Sud c’è una natura conservatrice, abbottonata, se sei un tipo strano e diverso, scopri che ci sono molte altre persone come te, e si possono stringere dei legami molto forti.
Un’altra cosa interessante del Sud è che vuole essere qualcosa di diverso dal resto dell’America, ma allo stesso tempo è il posto più americano di tutti. Quindi c’è una sorta di stratificazione.
Una parte di me non si sente neanche così americana, nel senso che avverto una sorta di desiderio, di liberarmi di quell’etichetta e di essere semplicemente uno scrittore. Ma forse non è una cosa così facile… è più facile a dirsi che a farsi, ecco.

Un’altra cosa che si legge molto, in giro, è che lei è uno scrittore “lynchano”, nel senso delle atmosfere. Le piace il cinema di David Lynch?
Amo David Lynch, e un paragone del genere mi lusinga terribilmente. È un complimento fantastico per me. Io sinceramente non ho pensato a Lynch mentre scrivevo, ma ho sempre sentito una forte affinità con i suoi film. Mi ricordo quando ho visto Velluto Blu, e tutto, la città, i personaggi mi sembravano stranamente familiari… Di recente l’ho rivisto, e mentre pensavo «Cavolo, perché ho la sensazione che questo sia un sogno che ho fatto io?» mi sono reso conto che era stato girato nella Carolina del Nord negli anni ‘80. Quindi insomma, forse la mia vita è stata più simile a un film di David Lynch di quanto non voglia pensare…
Comunque, amo quei film. Come amo ad esempio Terrence Malick, per dire un altro grande regista americano che secondo me a volte lavora in un modo simile. Comunque, non ho cercato consapevolmente di imitare David Lynch, altrimenti mi sarei messo nei guai. Però sono felice che le persone vedano la sua influenza, perché certamente amo il suo lavoro.

17:30

“Goodbye Hotel”

Alice 14.06.2025, 14:40

  • adelphi.it
  • Michele R. Serra

La voce degli animali è un pezzo importante di Goodbye Hotel. Perché ha scelto le tartarughe? È un fatto simbolico – animali che si portano la casa sulle spalle, lenti, ma resistenti, eccetera – o le piacciono proprio?
Le tartarughe hanno ovviamente una grande risonanza simbolica, è molto semplice da capire. Ma oltre a quello, volevo avere nel libro un animale che potesse sopravvivere agli esseri umani. Ho pensato a tutte quelle famiglie che hanno comprato tartarughe che poi sono finite nelle mani dei nipoti dei primi proprietari. Sai, io ho un cane, e so che il mio cane morirà prima di me e questa sensazione è orribile… Pensando alla tartaruga, invece, pensavo alla saggezza che potrebbe sviluppare in tutti questi anni, a come potrebbe osservare l’assurdità e la stupidità degli esseri umani. Noi umani ci muoviamo troppo velocemente, facciamo troppe cose…
Poi c’è anche il discorso che le tartarughe sono tipo dei piccoli dinosauri. Pensa alle tartarughe giganti: sono esseri enormi, maestosi, magici, affascinanti. Riescono a sentire attraverso il loro guscio tutto ciò che le riguarda.
Pensa che io crescendo non ero affatto una persona che amava gli animali: ero un po’ un “bambino da interni”, come diciamo in America. Mi piaceva stare nella mia stanza a leggere. Poi crescendo mi sono innamorato degli animali e del loro modo di vedere il mondo. Per dire, uno dei miei film preferiti è Au hasard Balthazar di Robert Bresson: parla di un asino, è una storia di esseri umani che passa attraverso gli occhi dell’asino. Volevo fare qualcosa di simile, ma attraverso decenni, non solo un anno o due.

In Goodbye Hotel, intorno alle tartarughe si muove un mondo, strani personaggi elegantemente vestiti con completi eleganti, che a pensarci sono simili a una setta. Però una setta positiva, se così si può dire. Dagli Stati Uniti sono arrivate tante storie di sette, negli ultimi decenni. Lei ha avuto qualche esperienza con qualche setta, nel North Carolina?
Dunque, non ho avuto esperienze dirette con sette o cose simili, ma posso dire che l’America è molto sensibile a questo argomento. Voglio dire, gli americani sono straordinariamente superstiziosi, c’è un sacco di gente che si cura coi cristalli, appassionati di tarocchi e cose del genere. E ci sono davvero un sacco di sette, che poi in questo periodo sono molto di moda, perché ogni settimana fanno qualche film o qualche documentario che ne parla. Poi c’è tutta una tradizione di truffatori, di persone che carpiscono la fiducia della gente, questi sono in circolazione fin dagli albori della società americana. E non si muovono solo nel campo religioso, ma anche in politica e negli affari… penso ci sia un modo molto americano di ingannare le persone, di sfruttare la loro fiducia.          
In ogni caso, l’idea che mi è venuta è quella di una setta che non ingannasse le persone per il proprio guadagno illecito, ma per diffondere benessere in modo silenzioso e anonimo.

Tutti i personaggi del romanzo tentano in qualche modo di resistere ai flutti del destino, e allo stesso tempo cercano… non vorrei esagerare con le parole, ma alla fine sembra che cerchino la Verità. V maiuscola.
Io non sono uno che fa profondi pensieri filosofici, e non credo di avere chissà quale intelligenza, ma ci sono alcune cose che ricerco costantemente nella narrativa, e una di queste è la verità. Ma delle piccole verità, non la verità con la V maiuscola. C’è una storia, che non so se sia vera o completamente inventata… si dice che Flannery O’ Connor un giorno avesse dato alcuni racconti alla donna che gestiva il negozio di alimentari di un piccolo paese, una donna che non era una grande lettrice.
E insomma la O’Connor un paio di giorni dopo torna e dice: «Che ne pensi delle mie storie?» E l’anziana signora risponde: «Beh, racconti quello che fanno alcune persone». Ecco, penso che questo sia quello che sto cercando: raccontare quello che a volte possono fare le persone. Poi è chiaro che le grandi verità sono più sfuggenti, ma credo che la ricerca di qualcosa di solido, onesto e reale non sia un’impresa da pazzi. E puoi cercare delle risposte anche se non sei sicuro di trovarle. Puoi avere fede e speranza nelle cose, anche senza arrivare necessariamente a quella conclusione che cercavi.

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