Ci sono contraddizioni e incongruenze che spesso esprimono il senso della vita umana molto più di ogni presunta logica e linearità. Nel caso di Pär Lagerkvist, il grande scrittore e drammaturgo svedese nato nel 1891 e morto nel 1974, Premio Nobel per la Letteratura nel 1951, il senso può essere rinvenuto in una definizione intenzionalmente illogica che lo stesso Lagerkvist diede di sé stesso in uno scritto del 1934, intitolato “Il pugno chiuso”: «Io sono un credente senza fede e un ateo religioso». Una simile affermazione è ciò che si definisce un ossimoro, perché accosta due termini che si escludono a vicenda. A stretto rigore di logica non si può essere credenti senza fede e atei religiosi, ma la vita nella sua concretezza si sostanzia proprio in questa compresenza degli opposti. che Lagerkvist ha espresso nella sua forma più ampia e paradossalmente compiuta.
Uomo di grandi e nobili contraddizioni, perso come tutti nel nulla comune ma costantemente in cerca di un riscatto, di una redenzione e di un senso, Pär Lagerkvist rimane senza alcun dubbio, insieme al suo connazionale Ingmar Bergman, l’ultimo esponente di spicco della grande cultura nordica che nella seconda metà dell’Ottocento e in buona parte del secolo successivo ha gettato lo scandaglio nelle profondità più impervie della condizione umana. La sua opera, che si snoda su un arco di mezzo secolo, ha un’assoluta continuità, perché ruota intorno a un unico problema: capire non tanto se Dio esiste o meno, ma piuttosto se è presente nella vita degli uomini, se è data la possibilità di una comunicazione. Così concepita, la vita si configura quindi non solo come una continua interrogazione alla ricerca di un significato, ma anche come un continuo pellegrinaggio in cerca di una meta. E’ la vecchia idea di Strindberg, presente in drammi come “Verso Damasco”, “Avvento” e “La grande strada maestra”, che Bergman riprese in maniera esplicita ne “Il settimo sigillo”.
Una simile dimensione si profila con assoluta chiarezza già nel primo grande romanzo di Lagerkvist, “Il sorriso eterno”, scritto nel 1920, perché nelle sue pagine sono presenti tutti i temi che torneranno in seguito in numerose variazioni: la ricerca di un significato della vita, il silenzio di Dio, l’interrogazione e soprattutto l’ansia come strumento di conoscenza. Ne “Il sorriso eterno” è contenuta inoltre l’idea dell’uomo come “ospite della realtà”, che Lagerkvist svolgerà cinque anni dopo nell’omonimo romanzo autobiografico.
L’idea dell’essere umano come ospite di una realtà incomprensibile (viene da pensare a Silvio D’Arzo e alla sua percezione del vivere in “casa d’altri”), la fede che si stempera nel dubbio e il dubbio che si sostanzia nella ricerca di una fede e di un senso, il terrificante e pascaliano “silenzio eterno degli spazi infiniti”, il tentativo di strappare un significato proprio a quel silenzio: i grandi temi dell’universo umano e poetico di Lagerkvist si cristallizzano nel corso degli anni in opere di enorme impatto e profonda suggestione, in particolare nel romanzo “Il nano”, del 1944, che presenta un’impietosa riflessione sul periodico ricorrere del Male nella storia dell’umanità (qui, invece, il pensiero corre a “Il cielo è rosso” e “Le opere di Dio” di Giuseppe Berto) e contiene forse la definizione più centrata di quanto gli esseri umani sono riusciti a infliggersi nel cosiddetto “secolo breve”: «Io odio me stesso», dice il nano, «mangio la mia carne pregna di fiele, bevo il mio sangue tossico».
Non meno profonda è poi la riflessione contenuta nell’altro grande romanzo “Barabba”, del 1950, con una vicenda che è una sorta di immagine esemplare della condizione umana. Barabba evita infatti la condanna capitale, perché l’umanità deve essere riscattata dalla morte di Gesù. E’ una sorte straordinaria, la sua, che trasforma il predone e l’assassino in un personaggio fortemente screziato e contraddittorio, in uno di quei viandanti tanto cari a Lagerkvist, un pellegrino alla ricerca di una verità che rischiari il buio e conferisca una parvenza di senso all’eterno ripetersi del nascere vivere e morire. E’ quindi un simbolo dell’uomo che «reca la morte dentro di sé» e forse, come lasciano intuire le ultime righe, non trova una risposta nemmeno nell’ora estrema. Un romanzo eccezionale, ancora oggi molto letto, dal quale venne tratto l’omonimo film con Anthony Quinn e Vittorio Gassman e gli valse il conferimento del Premio Nobel. L’inquieto Lagerkvist non smise di cercare e interrogarsi nemmeno negli anni successivi, come attestano le liriche contenute nella tarda e possente raccolta “La terra della sera” e gli “Appunti per il Dio solitario”, scritti negli ultimi anni di vita.
E oggi, cosa rimane del suo pellegrinaggio e della sua ricerca? Molto, forse tutto, perché Lagerkvist si è sforzato per una vita intera di colmare il vuoto lasciato dal declino della fede e dall’arroganza delle ideologie che hanno segnato il Novecento con un marchio di fuoco e di sangue. In un’epoca che ha praticamente abolito la trascendenza e la domanda sul senso, trasformando il relativo in assoluto e viceversa, il pellegrino ed eterno viandante Lagerkvist sembra provenire da un mondo lontano, remoto, inattuale, ma proprio in questo risiede la sua straordinaria e stringente attualità. La si può trovare, espressa plasticamente, negli splendidi versi di una poesia scritta negli ultimi anni di vita, dove la fede e l’ateismo sembrano quasi fondersi in un’immagine dell’insensatezza e insieme della speranza quali cifre più autentiche di quella misera cosa che, comunque la si consideri, rimane la condizione umana: «Se credi in dio e nessun dio esiste… / Perché un essere sta al fondo delle tenebre / a invocare / qualcosa che non esiste? / Perché accade? / Non c’è nessuno ad ascoltare chi invoca / nelle tenebre. / Ma allora perché mai c’è il grido?».