Letteratura

Regarder en persan

Il senso autentico della laicità

  • 13 febbraio, 08:31
  • 13 febbraio, 13:24
I tre filosofi 1506-1508 di Giorgio da Castelfranco detto Giorgione
Di: Mattia Mantovani

La datazione, come tutte le datazioni post quem, è piuttosto  indicativa ma sostanzialmente attendibile. L’altezza cronologica è il 1721, quando la pubblicazione delle Lettere persiane di Charles-Louis de Montesquieu inaugura un’epoca e un nuovo modo di articolare il pensiero. Comincia infatti l’Illuminismo, che ha contribuito in maniera decisiva a mutare il modo di pensare la realtà e sta alla base di tutte le massime conquiste di questi ultimi secoli, non ultima la democrazia nella sua forma moderna.

Ma si tratta davvero di una conquista? Sì, no, ma, forse… La questione è piuttosto scivolosa. Basti pensare che un realista scettico e disincantato come Gustave Flaubert la considerava invece un’autentica iattura e le ha consacrato nel 1874 un lavoro teatrale ingiustamente negletto, la commedia in quattro atti Il candidato, che meriterebbe davvero un’attenta rilettura.

Inizialmente vicino a Rousseau (uno dei modelli della sua giovinezza insieme a Byron e Goethe), Flaubert ha assunto via via posizioni molto simili a quelle di Voltaire (l’idea utopica di una società laica, pluralistica e avviata verso una crescita equilibrata e razionale) nella valutazione complessiva delle questioni politiche e sociali. Sono molto rivelatrici, al proposito, due lettere inviate a George Sand, sua materna amica e confidente, nel dicembre 1867 («Se si fosse presa la grande strada di Voltaire, se si fosse pensato un po’ di più alla Giustizia invece che predicare tanto la Fraternità, se infine si fosse messa la Testa al di sopra delle Trippe, non saremmo giunti a questo punto») e negli ultimi mesi del 1871, al termine della guerra franco-prussiana e dell’esperienza della Comune: «Il sogno della democrazia consiste nell’elevare il proletario al livello dell’idiozia del borghese. Il sogno è in parte realizzato! Legge gli stessi giornali e ha le stesse passioni».

Nel mezzo, c’è una frase contenuta in una lettera del giugno 1869 («La politica è morta!») che aiuta a capire gli ambienti, le suggestioni e i temi de Il candidato. La politica è morta, sostiene Flaubert, perché ormai tutto è farsa e bêtise, quindi anche la politica è farsa e bêtise: nient’altro che una baracconata, un miserevole teatrino dove va in scena l’eterno ma sempre nuovo cuore di tenebra fatto di ambizione, sordido protagonismo, smania di potere e denaro, volontà di dominio e sopraffazione.

L’ineffabile Rousselin, protagonista del testo teatrale, vuole infatti realizzare il sogno di una vita, candidarsi al parlamento, e per farsi eleggere non esita a passare da un partito all’altro, dai conservatori ai liberali, promettendo favori in tutti gli ambiti (trasporti, scuola, abolizione delle imposte, sostegno all’agricoltura) fino a immolare la giovane figlia, che viene data in sposa al rampollo di un conte decaduto, solo ed unicamente per ottenere i sessantaquattro voti necessari all’elezione.

Ma in realtà tutti i candidati, in particolare gli opportunisti Gruchet e Murel, sono spinti da ambizioni private ed egoistiche, mentre gli elettori, da parte loro, cercano apertamente uno scambio clientelare e alla fine votano il candidato che promette il maggior numero di benefici personali, indipendentemente da qualsiasi idealità e considerazione sul “bene pubblico”, che in fondo nessuno sa cosa sia (e soprattutto, sottolinea velenosamente Flaubert, non interessa a nessuno). E’ insomma la democrazia come astrazione o peggio ancora come foglia di fico, mera gestione del potere, vile affarismo: un «basso sfogo dei mediocri», scriverà qualche anno dopo Huysmans in un celebre passo di Controcorrente.

Uno dei momenti più esilaranti è costituito dalla scena iniziale del terzo atto, con Rousselin che improvvisa un surreale (ma neanche troppo) monologo che è tutto un luogo comune, dal sospiroso quanto ipocrita richiamo ai «valori dell’Ottantanove» («Ah, l’Ottantanove!») alle immancabili e non meglio definibili «virtù del popolo», dai «privilegi imprescrittibili» alla necessità di «schiacciare la testa all’Idra dell’Anarchia», dallo «sviluppo del benessere tramite l’ascesa graduale delle classi medie» all’opportunità di utilizzare i sostantivi in -ismo («parlamentarismo, oscurantismo»), perché «fanno sempre un grande effetto». Ma se proprio si vuole individuare l’apice del grottesco, lo si può rinvenire in uno strepitoso e del tutto realistico scambio di battute tra Gruchet e Murel nella sesta scena del secondo atto: «Ma non mi avevate detto che Rousselin è un perfetto imbecille?»; «Certo, ma ciò non impedisce affatto di essere eletti».

Quello di Flaubert è ovviamente un paradosso che l’“orso” di Croisset ha spinto fino alle estreme conseguenze, ma come tutti i paradossi contiene un oggettivo fondo di verità e obbliga effettivamente a chiedersi cosa sia rimasto dell’Illuminismo, dell’articolazione laica del pensiero e conseguentemente della democrazia. La questione è stata ripresa da Max Frisch, uno degli ultimi e più rigorosi esponenti del pensiero illuministico, che nel 1986, in occasione di un celebre quanto controverso discorso tenuto alle Giornate Letterarie di Soletta, ne ha perfino predetto la morte, osservando che l’Illuminismo, la cosiddetta “ragione morale” e la democrazia verranno sostituiti da un parlamentarismo di facciata, dalla vuota finzione dell’“uno vale uno” e da nuovi e più subdoli oscurantismi. Il discorso ha un titolo che è tutto un programma: Alla fine dell’Illuminismo c’è il Vitello d’oro.

Insieme a Frisch, uno degli ultimi grandi interpreti della tradizione illuministica, quella stessa tradizione che ha tentato di fronteggiare gli oscurantismi e i totalitarismi in nome della ragione morale, è stato George Orwell. Malgrado abbia scritto un romanzo distopico e visionario come 1984, e anzi proprio per questo, Orwell ha riflettuto in maniera profondamente laica sulla crisi e il pervertimento della democrazia. Ma la sua laicità, esattamente come quella di Frisch, non va confusa con un certo laicismo oggi imperante, che relativizza l’assoluto ma nello stesso tempo, con esiti catastrofici, assolutizza il relativo e lo innalza a unica e indiscutibile unità di misura.

“Laico”, per Orwell e per ogni autentico illuminista, indica non già la negazione del sacro, dell’assoluto, del sentimento religioso e della tensione verso la trascendenza, ma piuttosto - e il discrimine è fondamentale - un’articolazione del pensiero, una categoria in virtù della quale istituire un approccio alla realtà non dogmatico e soprattutto non settario (il pensiero del religiosissimo Pascal, ad esempio, era profondamente laico nella sua struttura). Riflettere laicamente sulla crisi dell’Illuminismo e della democrazia non significa quindi relegarli nella soffitta delle anticaglie o peggio ancora gettarli alle ortiche. Significa piuttosto ribadirne l’esigenza proprio rimarcandone l’assenza o comunque la latitanza, i guasti, le incongruenze, l’oggettivo malfunzionamento.

È vero, infatti, che l’Illuminismo si è talora pervertito in ideologia o ancor peggio in un culto idolatrico e settario della “Dea Ragione” opposta al sentimento tragico della vita (secondo la definizione di un altro illuminista scettico e disincantato, Miguel de Unamuno), in una supina accettazione dell’autorità di una scienza degradata a scientismo, ma nella sua dimensione originaria rimane una delle poche utopie che si sono almeno parzialmente realizzate. Il sostantivo, in tedesco, è Aufklärung, col prefisso “auf” che fornisce proprio l’idea della luce della Ragione che si accende, scaccia le tenebre e permette di osservare la realtà senza filtri dogmatici.

Ecco il motivo per cui un’opera come le Lettere persiane dovrebbe essere il livre de chevet di chiunque voglia continuare a ragionare in maniera laica e democratica, e soprattutto in maniera tollerante, si vorrebbe quasi dire “umana” e responsabile, degna appunto di un essere umano pensante e non di un leone da tastiera, un suddito consumatore o un automa eterodiretto. Alcuni secoli fa, il già ricordato Pascal si diceva atterrito dal «silenzio eterno degli spazi infiniti». Oggi, invece, in un mondo ormai completamente secolarizzato e laicizzato (ma nel senso deteriore), si potrebbe forse operare una variazione dicendo che ad atterrire è la difficoltà di vivere in una società dove tutti parlano di tutto, ma alla fine è diventato quasi impossibile stabilire una vera comunicazione. Non sarebbe male, a questo proposito, rivedere uno straordinario e profetico film di Alessandro Blasetti del 1966, Io,io,io… e gli altri, magistralmente interpretato da Walter Chiari su una sceneggiatura scritta da Ennio Flaiano e altri grandi autori dell’epoca.

Regarder en persan, lo aveva definito Montesquieu per indicare la necessità di un effetto di straniamento e un mutamento prospettico simile a quello contenuto nelle lettere che i due viaggiatori persiani Usbek e Rica, giunti in Francia, inviano in patria per raccontare usi e costumi del paese che li ospita. Si tratta della relatività (da non confondersi col relativismo) di ogni prospettiva e conseguentemente di ogni giudizio, forse la più grande acquisizione dell’Illuminismo.

Il cerchio aperto nel 1721 da Montesquieu si chiude idealmente quasi sessant’anni dopo, nel 1779, col massimo raggiungimento artistico dell’Illuminismo tedesco, il dramma Nathan il saggio di Gotthold Ephraim Lessing, nel quale il principio del regarder en persan viene applicato alle tre religioni monoteiste con la ripresa della parabola dei tre anelli, già presente nel Decamerone di Boccaccio ma qui portata a un ben diverso e più profondo significato. Nella settima scena del terzo atto, il saggio ed elusivo mercante Nathan, che ragiona laicamente e quindi democraticamente, in base a categorie differenti rispetto a quelle delle dispute confessionali, sostiene che c’è un solo criterio per capire quale sia il vero anello: non quello della “verità assoluta”, (perché la verità e la realtà non sono una semplice somma di fenomeni, ma un sistema di convenzioni), quanto piuttosto quello del “miglior frutto”, che coincide col concreto contenuto di verità delle azioni di chi lo porta.

Il che significa che la verità in quanto tale non basta, fino a quando non si concretizza nella vita, nella sua fanghiglia, nei suoi dettagli più insignificanti. In un altro passo del dramma c’è un bellissimo dialogo tra Nathan e la figlia adottiva Recha, che si chiede se per Mosé sia stata più difficile la salita sul Sinai, dove ha ricevuto le tavole della legge, oppure la discesa dal monte verso la pianura, nelle miserie e contraddizioni della vita, dove la legge deve trovare una concreta e plausibile attuazione. E’ una domanda che esprime una consapevolezza terribilmente dolorosa, perché è solo dal complicatissimo confronto con la vita che la legge può trasformarsi in simbolo della libera ragione affrancata dai dogmi. Ma una simile consapevolezza diventa anche un invito alla tolleranza, all’accettazione dell’altro e del diverso: la verità, ci dice Lessing, non è mai verità assoluta, è sempre ricerca della verità.

Si tratta di un invito, più in generale, a vivere in questo basso mondo la propria verità e realtà nel rispetto della verità e realtà  altrui. Se si ignora e si disconosce (come avviene sempre più spesso) questa regola basilare della dialettica democratica e della convivenza civile, le profezie di Flaubert e Frisch sono destinate ad avverarsi. Per capirlo, basterebbe riflettere a fondo sulle mille fesserie che ingorgano la nostra quotidianità e infine, quasi obbedendo a una forza di gravità spirituale che spinge costantemente verso il basso, confluiscono nel pozzo nero di certi social-network, in una sorta di miserevole (e assolutamente non laico e non democratico) “tutti contro tutti”. Non è anzi da escludersi che quelle fosche profezie si siano già avverate. Ma ormai siamo talmente incapaci di regarder en persan, talmente poco laici, poco democratici, inondati di bêtise, sommersi dalla valanga dell’attualità, assordati, inebetiti e alienati dal continuo rumore dei “fatti”, che forse non ce ne siamo nemmeno resi conto.

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