Letteratura

Sepúlveda e la frontiera scomparsa

Lo scrittore cileno, amato perché riconosciuto come narratore vero

  • 29 luglio, 09:20
  • 29 luglio, 11:03
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  • Keystone
Di: Marco Alloni    

Mi sono chiesto spesso le ragioni del grande successo di Luis Sepúlveda. Naturalmente prescindendo dalla scrittura, nella cui forza ed esattezza – è lui stesso a ricordare che «quando un aggettivo non serve uccide» – è un precipitato del migliore stile sudamericano. E, dopo aver letto alcuni suoi libri, le ho infine ravvisate attraversando il romanzo La frontiera scomparsa, la cui cifra autobiografica, in questo senso, è rivelatoria.

Ve ne sono di vari ordini, di ragioni per motivare il profondo impatto che la sua opera ha avuto sul lettorato. Ma una su tutte mi sembra particolarmente rilevante: la cointeressenza fra romanzo e sua necessità. Per dirla in una formula: si potrebbe affermare che Sepúlveda è uno degli scrittori meno inautentici del panorama contemporaneo. Più precisamente, si può rilevare che ogni frammento dei suoi romanzi trasuda vissuto, procede dal vissuto, prende corpo dall’urgenza di risolvere e testimoniare il vissuto sulla pagina. Insomma, Sepúlveda non scrive perché ha nel cassetto questa o quella “storia vera” – come sembra desiderino gli appetiti editoriali più approssimativi di questi anni – ma perché la sua stessa esistenza è talmente vera, nella propria caratura morale e politica, da pretendere immediatamente racconto.

Nel romanzo La frontiera scomparsa questo aspetto è più evidente, negli altri suoi libri e racconti più sfumato. Ma il dato di fondo rimane inequivocabilmente lo stesso: Sepúlveda non ha bisogno di “épater” per il semplice fatto che “épatant” è il medesimo accordo tra la sua vita e l’espressione letteraria che ne ha data. Si deve dunque subito riconoscere che laddove per molti altri il dato immaginativo è centrale in sé, in quanto inventa una vita altrimenti irriconoscibile che nella finzione narrativa, in Sepúlveda è del tutto inscindibile dall’urgenza di traslare una vita assolutamente reale. Detto in altre parole: se Sepúlveda tocca le corde più intime della nostra sensibilità, è perché le sue finzioni sono riflesso esatto dell’intimità del suo vissuto.

Ed è precisamente questo richiamo che, direttamente o indirettamente, ritorna sempre nelle sue storie: tutto ciò che egli racconta importa perché è vero, perché nasce da quel sangue vitale che fu il suo stesso sangue vitale. E questo sangue, di questa passione morale e civile che fu l’intera sua esistenza, gli appartiene a tal segno che rimanda i suoi echi in ogni frase in cui ci imbattiamo.

Nessuna metafora o allegoria è mai fine a se stessa: dietro ogni personaggio “di fantasia” indoviniamo – anzi, letteralmente percepiamo, avvertiamo, patiamo – gli anni feroci della sua infanzia, la precoce iniziazione alla ribellione, le torture patite e le angherie subite, il carcere affrontato con eroismo, l’eroismo della sua lotta politica a fianco di Salvador Allende, la strenua lotta contro gli scherani di Pinochet, le persecuzioni di cui è stato di volta in volta vittima, l’amore denso e incondizionato per le figure della resistenza al potere, la sua fierezza di uomo tutto d’un pezzo.

Non si possono inventare i sentimenti: li si può eventualmente fingere, come insegnava Pessoa. Ma inventarli non è nella disposizione dell’umano: e laddove ci si cimenti in questa dubbia impresa, il risultato sarà sempre palese: dalla pagina trasparirà il demone più temibile con cui la letteratura possa misurarsi, l’inautenticità.

Ecco, Sepúlveda ci ha risparmiati da questo demone e da questa menzogna. E per questo la passione con cui lo leggiamo travalica il semplice apprezzamento formale – che pure merita il più convinto rispetto – e raggiunge le corde del nostro sentimento più sincero. L’autobiografismo, mascherato o meno che sia, si appalesa nel suo lavoro come il sostrato di autenticità irrinunciabile per poter parlare di scrittore vero e non solo di scrittore bravo.

D’altra parte, a ben pensarci, ogni forma di letteratura degna di questo nome è letteratura autobiografica. Da Dante a Hemingway, gli scrittori più consapevoli non hanno mai chiesto alle metafore di avvicendarsi alla vita, ma di manifestarla. E visto che nella potenza delle metafore e dei simboli è sempre l’espressione di un dato vitale non ulteriormente riducibile, la letteratura che conta è sempre stata un modo indiretto, apparentemente traslato, di riagguantare l’essenza di ciò che va inteso, non solo per “vita”, ma per “nostra vita”.

E in questo Sepúlveda è uno dei maestri indiscussi. La sua opera – che nella Frontiera scomparsa trova una sorta di disvelamento per il critico – è una delle testimonianze più estreme di che cosa abbia da intendersi per “autenticità letteraria”. Non limitarsi a scrivere una “storia vera”, ma aver vissuto a tal grado la propria esistenza all’insegna della “verità” da riconfortarci nel nostro più intimo bisogno: sapere che tra letteratura e vita non deve infine esserci nessuna differenza.

Luis Sepulveda

Il Quotidiano 13.05.2019, 19:00

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