Letteratura

Strindberg in Svizzera: l’utopia della “ruvidezza”

Lo svedese, esattamente come il “divino svizzero” Gotthelf, non meno grande e non meno inascoltato, era molto più avanti della sua epoca

  • 9 aprile, 08:18
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August Strindberg a Gersau nel 1886.jpg
Di: Mattia Mantovani

Per motivi storici e sociali -non da ultimo per la posizione geografica nel cuore dell’Europa continentale- la Confederazione elvetica potrebbe essere il paese delle utopie. Lo hanno pensato in particolare i due massimi scrittori di lingua tedesca prodotti dalla Svizzera nel ventesimo secolo, Max Frisch e Friedrich Dürrenmatt, che nel loro rapporto di odio e amore con la patria non hanno mai smesso di soffermarsi sull’utopia come una grande opportunità gettata al vento, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale.

Ma il diritto di primogenitura, se così lo si può definire, spetta al più grande scrittore svizzero tedesco dell’Ottocento, Gottfried Keller, convinto progressista e acceso sostenitore della costituzione del 1848, che in alcune meravigliose novelle e soprattutto nel tardo romanzo Martin Salander aveva descritto in maniera molto penetrante e profetica il pervertimento del liberalismo, la crisi delle istituzioni democratiche e il conseguente fallimento dell’utopia. Si tratta di considerazioni presenti anche nel celebre discorso sulla neutralità tenuto nel 1914 a Zurigo dal futuro Premio Nobel Carl Spitteler, per quanto declinate in maniera più conciliante e meno pessimistica.

Il primo a pensare alla Confederazione elvetica in termini utopici fu tuttavia uno straniero che proveniva dall’estremo nord, August Strindberg, che negli anni Ottanta del diciannovesimo secolo trascorse in Svizzera un triennio, dal gennaio 1884 al gennaio 1887, vivendo prevalentemente nella zona del Lago dei Quattro Cantoni, nel Cantone di Argovia e soprattutto sulle rive del Lago Lemano. L’umorale Strindberg, uomo di repentine accensioni e altrettanto repentini ripensamenti, fu infatti investito all’improvviso da un amore viscerale per la Svizzera, la terra di Jeremias Gotthelf («un divino svizzero che era molto più avanti della sua epoca»), autore del grande epos di ambientazione rurale Uli il servo (che Strindberg considerava a giusta ragione un capolavoro e al quale si ispirerà in seguito nel romanzo La gente di Hemsö), e soprattutto del prediletto Rousseau.

In quel periodo, infatti, lo scrittore svedese si era avvicinato al socialismo utopistico, che però nella sua personale rilettura si risolveva in un pressoché totale rifiuto dell’industrialismo in nome del rousseauiano “ritorno alla natura”.  Strindberg riteneva non a torto che il paese ideale per realizzare questa nuova utopia potesse essere la Svizzera repubblicana e federale, una nazione che in quel periodo aveva una costituzione assolutamente all’avanguardia, era non solo una terra di garanzie ma anche un rifugio per molti esuli politici, tra i quali gli anarchici russi.

Non a caso, durante il soggiorno elvetico, Strindberg pubblicò un ciclo di quattro “novelle svizzere o del Lemano” che nella versione definitiva assunse un titolo emblematico: Utopie nella realtà. Nella civiltà della protoindustria, secondo Strindberg, l’essere umano risulta scisso «a causa delle pressioni della società e dello Stato», e quindi appare necessaria «un’opera di minamento sociale» che si ponga in antitesi rispetto alla «politica corrente senza speranze». L’utopia nella realtà, appunto, che lo stesso Strindberg tratteggia in questo modo nell’introduzione al volume: «Questo libro è un attacco all’eccesso di cultura, ossia alla degenerazione. I seguaci dell’evoluzionismo hanno riconosciuto soltanto un progresso verso il meglio nell’evoluzione attraverso la selezione naturale e nell’ereditarietà delle caratteristiche utili alla sopravvivenza. Ma evoluzione non significa sempre progresso verso il meglio. Una malattia, infatti, evolve verso la crisi e la morte, una disposizione alla malattia evolve verso la malattia vera e propria. Allo stesso modo anche la corruzione può essere ereditaria, e anche le caratteristiche svantaggiose possono evolversi e trasmettersi ereditariamente».

Se si prendono come termini di paragone Frisch, Dürrenmatt e gli altri cosiddetti “patrioti critici,” che nel corso del Novecento hanno duramente criticato talune scelte della politica e della società elvetica, quella di Strindberg può apparire come una colossale ingenuità. Ma negli ultimi decenni dell’Ottocento, in un’Europa che stava duramente scontando gli esiti del catastrofico conflitto franco-prussiano, la Svizzera si presentava davvero come una terra vergine e un possibile laboratorio politico. Per capirlo, è sufficiente leggere la novella Il vessillo dei sette impavidi del già ricordato Keller.

Malgrado i frequenti viaggi in Francia e in Italia (Roma, Venezia, Genova e il Lago di Como, che lo deludono profondamente) e i continui spostamenti all’interno dei confini del paese, il baricentro del soggiorno svizzero di Strindberg è rappresentato dal Lago Lemano, la patria di Rousseau, nella zona di Ginevra, Losanna e Ouchy, dove arriva nel gennaio 1884 e ricava le impressioni che a distanza di parecchi anni rievocherà in questo modo nel romanzo autobiografico Lo scrittore, redatto in terza persona: «L’arrivo in Svizzera fu di grande importanza per la storia dell’evoluzione della sua anima. Provenendo dalla vita brulicante e troppo ricca di relazioni di Parigi, avvertì l’effetto rilassante della solitudine e del silenzio. Non un solo oggetto che ricordasse la civiltà o la società organizzata si mostrava al suo sguardo, che si perdeva nella contemplazione della grande superficie azzurra del lago e dei campi di neve delle montagne».

Bastano queste poche righe per capire fino a che punto Strindberg attribuisse al paesaggio svizzero una sorta di connotazione morale e risanatrice, sia sul piano individuale che su quello sociale. Strindberg arriva in Svizzera da Parigi, dove ha frequentato tra l’altro lo scrittore Jonas Lie e il drammaturgo norvegese e futuro Premio Nobel Bjornson. Appena giunto in territorio elvetico, il 25 gennaio 1884, indirizza agli amici rimasti in Francia una lettera nella quale è possibile ravvisare un entusiasmo ai limiti dell’esaltazione: «Eccovi una lettera collettiva su carta rosa, scritta a un tavolo dal quale si gode la vista sull’azzurro Lago di Ginevra, la Savoia, il Monte Bianco e Clarens di Rousseau, Montreux, e se sforzassi gli occhi potrei vedere i nichilisti a Ginevra! Il viaggio qui è stato una santa idea! Figuratevi! Non avevo mai visto le Alpi! Quando, dopo un terribile viaggio mattutino nel Giura coperto di neve, siamo scesi verso la soleggiata Svizzera, abbiamo avuto al principio l’impressione di vedere delle nuvole, ma superata la sorpresa ci fu chiaro che si trattava di montagne e in noi subentrò un tale subbuglio mentale e fummo così affascinati che mia moglie scoppiò in lacrime e io fuggii come uno scoiattolo nella parte anteriore della vettura, per poter ammirare contemporaneamente da due finestrini. E adesso dite pure che Strindberg non riconosce che una cosa è grande! Questa natura è grande, tanto grande che i piccoli uomini non sono riusciti a liquidarla, sebbene la voglia ci fosse!».

In Svizzera, secondo le sue stesse parole, ha intenzione di «dedicarsi all’avvenire dell’umanità sofferente», ma questo ambizioso progetto, che dovrebbe tradursi in un socialismo agrario non meglio definibile, fallisce quasi subito a causa di una vicenda incresciosa. Il soggiorno svizzero di Strindberg coincide infatti con la stesura non solo di Utopie nella realtà, ma anche delle cosiddette “novelle coniugali” scritte in risposta a Casa di bambola di Ibsen e raccolte in due volumi sotto il titolo Sposarsi.

Ibsen e Strindberg

Laser 28.03.2017, 11:00

Il libro uscì in Svezia il 24 settembre 1884 e il 3 ottobre venne sequestrato per una presunta affermazione blasfema contenuta nella novella Il premio della virtù. Strindberg, che nella Svezia pietista e bacchettona dell’epoca rischiava seriamente il carcere, fu costretto a un precipitoso ritorno in patria e si sottopose a un processo che il 17 novembre si concluse con un’assoluzione di facciata. Tornato in Svizzera, deluso e amareggiato, lo scrittore raccontò l’intera vicenda nel Viaggio del sequestro, un’ampia riflessione in forma epistolare che il suo editore di Stoccolma Bonnier rifiutò di dare alle stampe, giudicandola “indegna” e appunto non pubblicabile.

I mesi che seguono il ritorno dalla Svezia, dove in sostanza era considerato “persona non grata”, sono un periodo molto confuso, di grandi sofferenze e profonda incertezza. Nel maggio 1886 Strindberg raggiunge un suo giovane ammiratore, l’aristocratico Verner von Heidenstam (il cosiddetto “D’Annunzio svedese”, anch’egli futuro Premio Nobel), nel villaggio di Othmarsingen, nel Cantone di Argovia. In seguito, ricorderà il soggiorno nell’idillio argoviese in questi termini: «Trascorrevamo la giornata nella cosiddetta sala dei cavalieri del castello, col fumo del tabacco che serpeggiava come insegne di garza blu tra le lance. Quell’anno era di moda portare d’estate tocchi di seta e così, con questi copricapi medievali, ce ne stavamo lassù nel salone medievale dell’arcigno antico maniero della rapace famiglia Gessler, discorrendo delle questioni contemporanee e di quel nostro paese tanto a nord, oltre i nivei deserti della catena delle Alpi».

La vicenda legata alla pubblicazione di Sposarsi e la frequentazione di Heidenstam segnano uno snodo decisivo nella sua vita, al punto che si può parlare di uno Strindberg precedente e successivo a Sposarsi. Si esaurisce o comunque si stempera la tensione utopica, si affermano i primi tratti che prenderanno poi forma nei cosiddetti drammi naturalistici e l’avvicinamento a una visione del mondo vagamente improntata alla “nobile solitudine” di Nietzsche, che invece troverà spazio in opere narrative come Ciandala e Mare aperto. Ma intanto il pellegrinaggio continua.

Fra luglio e agosto del 1886 il sempre più inquieto Strindberg si trasferisce sul Lago dei Quattro Cantoni, nella località di Weggis e in seguito a Gersau, la gloriosa ex “Libera Repubblica” nella cosiddetta “Riviera”, dove tra l’altro comincia a compiere pionieristici studi sulla fotografia e sull’immagine. Vi rimarrà fino al gennaio 1887, prima del ritorno in Svezia attraverso la Germania. Gli ultimi mesi trascorsi in Svizzera lo vedono in uno stato d’animo di profonda prostrazione. Il processo per blasfemia, i problemi coniugali con la moglie Siri von Essen (dalla quale divorzierà burrascosamente alcuni anni dopo, raccontando la vicenda quasi in tempo reale nel sulfureo Autodifesa di un folle), le costanti manie di persecuzione e la consapevolezza che “l’utopia nella realtà” è destinata a rimanere tale spingono lo scrittore quasi sull’orlo del baratro. Scrive il 25 settembre 1886 a Heidenstam: «L’autunno è qui… Tristezza, apatia, poca voglia di stendere la mano per avere una rivincita e forse gloria! Niente mi tenta più come il sonno. Senza volontà, scettico, abbattuto!».

E’ uno dei numerosi baratri, forse nemmeno il più profondo, che Strindberg ha sfiorato nel corso di una vita tanto intensa quanto tormentata. Poi ci saranno gli anni di Berlino e Parigi, l’idea della letteratura come “vivisezione”, l’alchimia, due altri matrimoni falliti, la percezione della vita come “inferno” e “lotta di cervelli”, il teatro onirico, la tarda utopia dei Kammerspiele e una difficile morte a 63 anni, alla fine della “grande strada maestra”, come dice il titolo della sua ultima opera teatrale. Strindberg non farà più ritorno in Svizzera, che tuttavia rimarrà una presenza costante nei suoi pensieri e ricordi. Più volte, nell’epistolario, esprime infatti il desiderio di tornare in quella Svizzera che negli ultimi anni di vita, nei Libri blu, ricorderà addirittura come un paradiso.

Gli anni svizzeri rimangono insomma la svolta fondamentale della sua vita e della sua opera, anche perché contengono una delle prime formulazioni del “disagio della civiltà” e il richiamo alla “ruvidezza” e al primitivismo come residui spazi di libertà e autenticità all’interno di una società sempre più formale, asfittica, disumana: «Non è la cultura che attacco, ma l’eccesso di cultura. Siamo divenuti troppo raffinati, per questo la ruvidezza è sintomo di un sano arretramento. E’ raffinato mentire, mentre è segno di ruvidezza dire la propria opinione. Educhiamoci quindi a una maggiore ruvidezza», dice un passo di Utopie nella realtà, che ha tutti i connotati del manifesto programmatico.

Sullo sfondo del soggiorno in Svizzera, Strindberg delinea un’analisi e una critica della cultura che tornerà, variamente declinata, in tutte le sue opere successive. Il suo utopico richiamo alla “ruvidezza” -non lontano da quello di Nietzsche a una nuova “leggerezza”- è tuttora inascoltato, e con ogni evidenza è destinato a rimanere tale. Ma nella sua lontana eco, oggi più che mai, si avverte qualcosa di sinistro e amaramente profetico: lo svedese Strindberg, esattamente come il “divino svizzero” Gotthelf, non meno grande e non meno inascoltato, era davvero molto più avanti della sua epoca.

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