Diceva giustamente Giorgio Manganelli, a margine della pubblicazione del carteggio tra Giuseppe Tomasi di Lampedusa e la moglie Alessandra Wolff von Stomersee, che «si ritiene, con qualche incautela, che le vite degli scrittori siano naturalmente eccitanti, emotivamente fascinose, intelligenti», quando invece «codeste vite sono spesso abbagliate dalla luce del genio e inamidate dalla mano energica del destino». La regola, in effetti, è piuttosto ferrea e conosce davvero poche eccezioni: l’autore è l’opera, ma lo scrittore non è mai l’uomo. Nella migliore delle ipotesi, ne è l’immagine stilizzata, la maschera, il travisamento, la messinscena, perfino il trucco. Ma non solo: i grandissimi autori sono spesso i peggiori giudici delle proprie opere. Nemmeno Gottfried Keller, grandissimo scrittore ed eterno insoddisfatto, è riuscito a sottrarsi alla regola.

Gottfried Keller: Seldwyla e oltre
Blu come un'arancia 06.10.2016, 20:20
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Nel 1886, infatti, quando uscì Martin Salander, che si sarebbe poi rivelato il suo ultimo romanzo, il suo testamento spirituale e il suo addio alla letteratura, le reazioni furono apertamente negative, perché dall’autore di un romanzo quale Enrico il Verde (poi amatissimo da Nietzsche e Thomas Mann) e cicli narrativi come Novelle zurighesi e La gente di Seldwyla non ci si aspettava un romanzo improntato a un’impietosa critica dei guasti prodotti dal progresso e dalla democrazia, figlia quest’ultima di quel liberalismo sul quale circa quarant’anni prima si era modellata la costituzione dello Stato federale elvetico. Un pessimo giudice, il burbero e umorale Keller (che negli ambienti letterari della natia Zurigo era stato ribattezzato “il vecchio brontolone”), perché egli stesso aveva sciaguratamente sconfessato il romanzo, dicendo che era troppo didascalico e privo di poesia.
Comunque sia, e comunque lo si voglia interpretare (una cosa è certa: alla presente altezza cronologica è un romanzo attualissimo, perché ha prefigurato parecchi scenari non solo elvetici), Martin Salander chiude un percorso che si era aperto alcuni decenni prima, quando il giovane Keller, citoyen zurighese di idee liberali e convinto sostenitore – in aperta polemica col suo collega bernese Jeremias Gotthelf – della nuova costituzione del 1848 e della sua schietta componente utopica (come la definirà in seguito Max Frisch), aveva esordito con un romanzo di impronta tardo-romantica, il già ricordato Enrico il Verde, pubblicato nel 1855, nel quale lo schema del romanzo di formazione sull’esempio del Wilhelm Meister di Goethe veniva declinato nel segno di una sensibilità per molti versi già novecentesca, con screziature di dubbio e scetticismo.
Martin Salander è anzitutto un romanzo che parla di mutamenti. L’omonimo protagonista fa ritorno in Svizzera – per la precisione a Münsterburg, che nella finzione letteraria sta per Zurigo – dopo sette anni trascorsi in Brasile, dal 1864 al 1871. Martin Salander si è infatti trovato costretto ad emigrare a causa di una truffa operata ai suoi danni dall’amico di giovinezza Louis Wohlwend, un personaggio nel quale Keller ha fissato il tipo psicologico e sociologico dello speculatore che si muove a proprio agio in una finanza (e forse anche in una società) senza più regole. In Brasile, Salander è riuscito non solo ad evitare la totale rovina, ma anche a guadagnare onestamente una discreta somma di denaro. Torna quindi in Svizzera, ma fin dall’inizio si trova confrontato coi mutamenti, come ad esempio quello della stazione di Zurigo, che proprio nel 1871 era stata completamente riedificata sullo stile del Palais de l’Industrie costruito nel 1855 a Parigi in occasione dell’Esposizione Universale. Ma in sette anni non è cambiata soltanto la stazione. E’ cambiata anche la città nel suo complesso, sono cambiati in peggio gli uomini, le coordinate sono difficilmente ricostruibili, tanto che l’ineffabile Wohlwend lo trufferà una seconda volta.

I cambiamenti intervenuti nel cosiddetto paesaggio urbano fanno insomma da sfondo a un altro cambiamento, ancora più radicale. Il liberalismo aveva imboccato una sorta di vicolo cieco, si era pervertito e incanaglito, provocando in Keller, che quando scrive Martin Salander è ormai prossimo ai 70 anni, una profonda delusione. Gli anni Settanta e i primi anni Ottanta del diciannovesimo secolo risultano contrassegnati da un progresso non privo di conseguenze ed effetti collaterali: sono molti coloro che si arricchiscono, ma questo arricchimento avviene spesso in maniera troppo veloce e poco chiara, e non sono pochi i casi di fallimento e di vera e propria criminalità finanziaria, se così la si può definire. Senza dimenticare, infine, la gravissima crisi della Borsa del 1873. Negli schizzi preparatori al romanzo (che doveva intitolarsi originariamente Excelsior) Keller usa espressioni inequivocabili come «traviamento della nazione», «miseria svizzera» (sul calco della “miseria tedesca”, stigmatizzata alcuni decenni prima da Heinrich Heine) e soprattutto «arrivismo nel senso deteriore», parlando più in generale di un “sogno elvetico” che si sta trasformando in incubo, come una festa riuscita male o perfino mancata.
Tra i due estremi rappresentati da Enrico il Verde (poi ripubblicato nel 1879, in una versione ampiamente rivista e con un finale differente) e Martin Salander, si situano anche cronologicamente i grandi cicli narrativi nei quali Keller ha raccontato il nuovo mondo borghese e liberale (le Novelle zurighesi, raccolte in volume nel 1877) e le peculiarità della provincia svizzera, nella quale si rispecchiano lo spirito del tempo e le eterne contraddizioni umane (La gente di Seldwyla, pubblicato in due volumi tra il 1856 e il 1874). Tra le novelle di Keller, che comprendono anche una lunga narrazione a cornice intitolata “L’epigramma”, uscita nel 1881, il vertice è senza dubbio rappresentato dai dodici pannelli de La gente di Seldwyla, dove ci sono capolavori come il celebre Romeo e Giulietta nel villaggio, Lettere d’amore smarrite e Il sorriso perduto, nei quali lo humour e l’invenzione fantastica si compongono in un magnifico quadro di grazia fiabesca e acutezza realistica, con un senso di morte e decadenza costantemente tenuto a freno e infine risolto nella compiutezza dell’espressione artistica (il che spiega, tra l’altro, l’ammirazione di un lettore di spicco come Thomas Mann).
La novellistica di Keller – che fu anche un sensibilissimo poeta e un discreto pittore di paesaggi – è tutta disponibile in versione italiana in un prezioso volume pubblicato da Adelphi, che ripropone e unisce i due volumi che lo stesso editore aveva dato alle stampe nell’ormai archeologico 1964 con le congeniali e sempre attuali traduzioni di Lavinia Mazzucchetti, Ervino Pocar, Anita Rho e Gianni Ruschena, introdotte da un lungo e illuminante saggio di Elena Croce, che illustra con estrema chiarezza la poetica e le credenziali stilistiche dello scrittore zurighese. Claudio Magris, ai tempi giovane germanista e consulente di Einaudi, già salito alla ribalta grazie alla pubblicazione de Il mito asburgico, commentò in questo modo la pubblicazione dei due volumi: «Più ancora che nei romanzi, Keller si rivelò artista di prima grandezza nei racconti, che ora hanno visto la luce in Italia in una splendida e completa raccolta pubblicata dalla casa editrice Adelphi. In queste novelle, magnificamente tradotte e presentate, palpita la dimensione più alta, più aperta della narrativa tedesca di quegli anni».
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Se le Novelle Zurighesi restituiscono l’immagine piuttosto in chiaroscuro della Svizzera in una fase di profondo mutamento, La gente di Seldwyla si configura invece nel suo insieme, per dirlo con una metafora musicale, come una suite in dodici movimenti su una Svizzera ancora legata a un passato che si perde e scolora nella dimensione del mito. Ed è proprio un mito, nientemeno che quello di Faust, a costituire l’ossatura di una novella stranamente poco conosciuta come Specchio il gattino, nella quale Keller riprende il vecchio tema del patto col diavolo ma lo rilegge e rimodella in maniera originalissima, trasformandolo in una fiaba che vede protagonisti il tradizionale Mefistofele (qui nelle vesti del sordido profittatore Pineiss, una specie di “mastro stregone” del villaggio che anticipa il personaggio di Wohlwend in Martin Salander) e un simpatico nonché scaltro gattino che si chiama “Specchio” per via del pelo liscio e lucente. In una delle tante edizioni in lingua originale, quella uscita nel 1921 e più volte ripresa, le novella è arricchita dalle congeniali illustrazioni del pittore espressionista viennese Max Liebenwein, uno dei protagonisti della “Secessione” di inizio Novecento.
Come sempre nelle novelle de La gente di Seldwyla, che anche per questo motivo possono essere considerate la narrazione elvetica per eccellenza, lo spunto è costituito da un proverbio, un aneddoto, una massima di saggezza popolare oppure un modo di dire, che nello specifico di Specchio il gattino si riferisce ovviamente a un gatto. Scrive infatti Keller nelle righe introduttive: «Quando un abitante di Seldwyla ha fatto un cattivo affare oppure è stato ingannato, si usa dire che “ha comprato il grasso del gatto”. Si tratta di un modo di dire che è in uso anche altrove, ma in nessun luogo lo si sente così spesso come a Seldwyla, forse perché in quel di Seldwyla circola un’antica leggenda intorno all’origine e al significato di questa frase proverbiale». La narrazione, situata in un passato quasi mitico («alcune centinaia di anni fa, si dice…»), si propone apparentemente lo scopo di spiegare il detto proverbiale, ma in realtà racconta in maniera fiabesca e con straordinaria leggerezza di tratto il mito di Faust e l’eterna tensione dell’uomo (il gattino Specchio è un’evidente metafora) verso una dimensione “altra” rispetto alle strettoie della quotidianità.
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/letteratura/Il-bestiario-di-Robert-Walser--2193814.html
I gatti, diceva con giusta invidia Ennio Flaiano, riescono senza alcun problema in tutto ciò che i poveri umani non riescono a fare, e per farlo non hanno nemmeno bisogno di «letteratura, filosofia e altri istruttivi giochi contemporanei». Da questo punto di vista, Specchio è un gatto esemplare, molto simile al gatto Murr dell’omonimo romanzo di E. T. A. Hoffmann (che racconta la propria biografia servendosi dei fogli sparsi di una biografia altrui, quella del maestro di cappella Johannes Kreisler) nonché a certi felini splendidamente raccontati da Robert Walser. E’ vero, infatti, che Specchio va abbastanza spesso a caccia per trovare di che nutrirsi, ma per la gran parte del tempo, quando non ha bisogno d’altro, non si perde in inutili rovelli e si limita a sonnecchiare, dormire e ronfare. Un bel giorno, però, muore la sua anziana padrona e il povero Specchio si ritrova all’improvviso solo e abbandonato, scacciato di casa, senza nessuno che gli garantisca il cibo quotidiano.
Ridotto ormai pelle e ossa, ignorato dai ricchi borghesi, schernito da quella che Carlo Michelstaedter definirà poi la “comunella dei malvagi” (il cosiddetto consorzio civile, scenario di menzogne e maldicenze) e destinato alla morte per consunzione, Specchio si trascina a fatica per i vicoli di Seldwyla quando si imbatte nel “mastro stregone” Pineiss alias Mefistofele, che gli propone un ignobile patto: Specchio avrà a disposizione di che sfamarsi per tutto il tempo che sarà necessario, ma quando infine sarà sufficientemente pingue, lo stregone si potrà arrogare il diritto di ucciderlo per estrarre il grasso e adoperarlo come ingrediente nelle pozioni magiche (le analogie con la coppia Martin Salander/Louis Wohlwend sono evidentissime). Il dilemma, oltre che faustiano, è anche molto amletico e anticipa perfino il celebre verso di Rilke: «Se vincere è impossibile, sopravvivere è tutto». Il che è verissimo, ma è altrettanto vero che c’è modo e modo di sopravvivere e c’è anche una morte causata dal lento quanto ineluttabile regresso dei desideri. E’ precisamente una simile morte che insidia Specchio.
Dopo lunghe riflessioni, il gatto accetta la proposta e firma il contratto. Da quel momento in poi, la sua vita non sarà altro che il costante tentativo di escogitare sempre nuovi piani per ingannare (nutrendosi senza ingrassare) il mago stregone e salvare il pelo, che nel frattempo è tornato liscio e lucente. A differenza di Martin Salander, il gatto Specchio ce la farà, con le armi dell’astuzia e dell’intelligenza, mandando infine in rovina Pineiss, che aveva pensato troppo superficialmente di essersi assicurato il suo grasso ovvero la sua anima: «Il signor Pineiss da allora in poi condusse una vita miseranda. Non gli erano concessi la minima libertà e il minimo riposo, doveva fare stregonerie da mattina a sera, quando le sue forze lo consentivano, e quando Specchio passava di lì e vedeva tutto questo, diceva con pose di gentilezza: “Sempre al lavoro, sempre al lavoro signor Pineiss?”».
Robert Walser, suo grandissimo ammiratore, diceva giustamente – intendendolo come un complimento, non come un limite – che nelle pagine di Keller è tutto meravigliosamente risolto nella figurazione artistica, al punto che non sembra neanche vero. Lo stesso Walser ha descritto questa sensazione in un breve scritto in prosa intitolato La lettrice di Gottfried Keller, dove si parla di una giovane ragazza, lettrice accanita delle novelle di Keller, che a un certo punto scoppia in lacrime e infine esclama, come risvegliata da un sogno fatto di momenti d’incanto: «Ma il mondo non è così!».
Certo che il mondo non è così, ma è proprio per questo motivo che una novella come Specchio il gattino, un secolo e mezzo dopo, si legge con sempre maggiore piacere e diletto. Con l’aggiunta – è vero – di qualche strano e sinistro trasalimento, come nel caso di Martin Salander, ma anche col divertimento derivante dalla constatazione che a volte la scaltrezza e l’intelligenza possono aiutare a farsi beffe dei tanti Pineiss/Wohlwend che allora come oggi infestano e ammorbano la realtà. Ma non basta, perché nel pianto della giovane lettrice di Keller, come si intuisce chiaramente dal breve racconto di Walser, c’è anche una forma di riscatto da tutta l’artificialità e inautenticità delle parole e delle immagini.
E soprattutto c’è una profonda pietà per il mondo, simile per Keller a un grande teatro naturale che suscita la nostalgia per uno spettacolo (una festa) che non si potrà mai vedere, e magari nemmeno esiste. Forse è questo che intendeva il “vecchio brontolone” quando negli ultimi anni di vita – specialmente in occasione del settantesimo compleanno, nel 1889, trascorso quasi in incognito nella Svizzera centrale per sfuggire alle celebrazioni ufficiali, con una scaltrezza davvero degna del gatto Specchio – continuava a ripetere una frase solo apparentemente sibillina: «Ma un bel giorno dovrà pur esserci questa festa…».