Se guardiamo al cinema e alla narrativa occidentali, salta subito agli occhi una curiosa sproporzione: i mostri sono generalmente maschi.
Dracula, Jekyll e Hyde, Dorian Gray. Creature tormentate, tragiche, spesso persino affascinanti, con una storia da raccontare, una crisi da attraversare, a volte persino un’occasione di crescita. Il mostro maschio può sbagliare, soffrire, trasformarsi. Può essere compreso. Può perfino essere amato.
Alle donne, questo tipo di complessità è stato concesso molto meno. Quando una donna diventa “mostruosa”, di solito non è un percorso, ma una punizione. Viene rinchiusa, curata, eliminata. Più che un personaggio, diventa un monito, un avvertimento su cosa succede quando esce dal ruolo previsto.
Negli anni Novanta, la studiosa Barbara Creed ha provato a dare un nome a questa asimmetria parlando di mostruoso femminile. La sua intuizione, che si collega alla nozione di abiezione di Julia Kristeva per cui ciò che una cultura espelle per proteggere la propria idea di ordine e purezza torna come incubo, è che per secoli tutto ciò che riguardava il corpo e il desiderio delle donne sia stato raccontato come qualcosa di disturbante. Non perché le donne lo siano, ma perché lo è ciò che la cultura non sa gestire: la sessualità, il sangue, la rabbia, l’autonomia. In altre parole, il problema non è la donna, ma l’imbarazzo collettivo che la circonda.
Incontro con Julia Kristeva (1./2)
Laser 29.12.2014, 20:30
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Dalla mitologia a oggi
Guardando alla storia delle rappresentazioni, colpisce una certa continuità. Dalla mitologia all’horror contemporaneo, la donna-mostro mantiene una funzione di controllo e ammonimento, pur cambiando linguaggio. Nella mitologia, figure come le sirene trasformano il desiderio femminile in pericolo e la trasgressione in colpa. Nell’Ottocento il mostruoso scende dal mito al corpo reale: la donna che devia dalla norma diventa una creatura da contenere, rinchiudere, medicalizzare. Il Novecento cambia poco la struttura del racconto. La sofferenza viene mostrata, ma non diventa mai un percorso: serve a spiegare l’orrore, non a trasformarlo in esperienza.
È solo negli ultimi decenni che qualcosa inizia a incrinarsi. Alcuni film più recenti – come Jennifer’s Body – vengono oggi riletti come spazi in cui la mostruosità può funzionare come linguaggio del trauma e della rabbia. Non sempre si tratta di opere nate come critica consapevole, ma il modo in cui vengono riscoperte dice molto di un cambiamento di sguardo.
Dossier: il mito della sirena (1./5)
Alphaville 11.11.2024, 12:05
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Facile essere mostro
Il paradosso è che per una donna non serve nemmeno il soprannaturale per essere percepita come mostruosa. Se la società accetta l’uomo deformato, fatica ad accettare la donna che non è desiderabile o docile. Per le donne, la mostruosità non deve essere soprannaturale: spesso basta una deviazione minima. Invecchiare, non essere decorative, rivendicare un desiderio proprio. Nelle fiabe, le streghe incarnano bene questa logica: donne che cercano di recuperare bellezza, giovinezza o uno status perduto e che per questo vengono trasformate in minacce. Il corpo femminile diventa così il luogo simbolico su cui si misura la perdita di valore.
Il mostruoso femminile ritorna in alcune tipologie ricorrenti. C’è la madre inquietante, troppo controllante o ambigua, come in Coraline, che devia dall’ideale rassicurante della cura. C’è la ragazza pubescente che si trasforma in donna, figura centrale nei film di possessione, dove il cambiamento del corpo e la scoperta del desiderio viene raccontato come perdita di controllo. C’è la strega, manipolatrice dei desideri dell’uomo e iconograficamente resa indesiderabile con nasi adunchi, pelle verdognola e porri. E c’è la donna che mette in crisi l’ordine maschile o la struttura della famiglia, trasformata in pericolo nel momento in cui rifiuta il ruolo assegnato.

La caccia alle streghe in Val Poschiavo
RSI Notrehistoire 11.05.2019, 16:37
Il sottile legame tra donna e mostro
Allo stesso tempo, siamo circondati da storie in cui una donna ama un mostro. Se Medusa viene decapitata, Bertha Mason, in Jane Eyre, rinchiusa e fatta sparire e le streghe bruciate, dalla Bella e la Bestia a Edward Mani di Forbice, il mostro maschile può essere visto, compreso e persino salvato. Le donne che si legano a questi mostri sono spesso figure emarginate: mute, eccentriche o poco interessate a riconoscersi nella società in cui vivono.
Il mostro diventa uno specchio della loro condizione. Entrambi vivono ai margini, entrambi non sono desiderati dal mondo, entrambi hanno un corpo che tradisce le aspettative.
Il movimento inverso è raro. In Splash – Una sirena a Manhattan troviamo uno dei pochi esempi di lieto fine tra uomo e creatura femminile. Ma è facilitato dal tipo di mostruosità in gioco, legata all’idea di sessualità e desiderabilità. Quando la mostruosità femminile smette di essere attraente o non viene rese innocua entro la fine del racconto, il lieto fine tende a svanire.
Le nuove antieroine
Negli ultimi anni, con l’emergere di nuovi punti di vista portati da registe e autrici, il modello narrativo maschile dominante inizia a incrinarsi. Prende forma una nuova figura: l’anti-eroina complessa, protagonista di una recente ondata di romanzi di de-formazione, che non raccontano una crescita o una riconciliazione, ma una trasformazione ambigua.
Lo vediamo nel cinema, in film come Titane, e in letteratura in casi come Nightbitch di Rachel Yoder, dove la maternità viene raccontata come esperienza selvaggia e destabilizzante. Qui il corpo della donna-mostro non è più solo un castigo, ma un linguaggio; la maternità e le trasformazioni femminili diventano esperienze reali e contraddittorie; l’orrore smette di essere uno spauracchio morale e diventa una metafora dell’identità.






